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Domenica, 28 aprile 2024 - Misteri gloriosi - San Luigi Maria Grignion da Montfort ( Letture di oggi )

Sant'Antonio di Padova: La natura ha posto davanti alla lingua due porte, cioè i denti e le labbra, per indicare che la parola non deve uscire dalla bocca se non con grande cautela... Ma la lingua, male ribelle, piena di veleno mortale, fuoco che incendia la foresta delle virtù, sfonda la prima e la seconda porta, esce in piazza come una meretrice, loquace e raminga, insofferente della quiete, e porta ovunque lo scompiglio. Chi è perfetto nella lingua, è perfetto in tutto.
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Meditazioni sulla vita di San Filippo Neri



San Filippo neri



I PIU' AMATI E MEGLIO MALTRATTATI

Da cortigiano... a ben altro.

Non tutti quelli che avvicinavano Filippo erano trattati indiscriminatamente: essi erano curati uno per uno, come il medico fa con i malati, con un disegno prestabilito ed una finalità precisa.

Tratteremo, in questo capo, di quei suoi seguaci più vicini a lui e più amati e che i biografi chiamano suoi « compagni ».

Il primo, per ordine di tempo, e più in vista, fu Francesco Maria Tarugi nato a Montepulciano nel 1525.

Era nobile, parente dei due pontefici Giulio III e Marcello II, ed aveva qualità personali meravigliose. Bellissimo di persona, era elegante ed un parlatore affascinante: indossava quasi sempre un mantello di velluto: aveva grandi aspirazioni, ma umane: Filippo, non appena lo conobbe, gli mise nel cuore un ideale ben più grande, perché comprese quali tesori aveva quell'uomo sotto quelle esteriorità di mondano.

Generoso com'era, Francesco Maria avrebbe subito voluto seguire Filippo, ma glielo impediva un laccio, un legame sentimentale.

- Sta tranquillo, gli disse un giorno Filippo, se tu non puoi incamminarti per la via che ti indico, per questo tuo legame, non passerà un mese e tu sarai libero.

Entro il mese la donna mori.

Pazzo prima per una donna, s'intruppò in una nuova specie di pazzi: Filippo cominciò presto la cura di lui per una guarigione completa.

Prima di tutto, contrariamente a quello che si credeva o che lo stesso Tarugi si aspettasse, Filippo volle che egli seguitasse a portare la sua veste di elegantone, pur ora spirituale ben noto.

Ricordate la gloriosa... storia del cane « Capriccio »? Filippo ordinò a Francesco Maria, come il più robusto, di portarlo in braccio per Roma, più spesso degli altri, e fu Francesco Maria che maledisse il cane in versi, ed augurò alla gatta di crepare presto.

Gli antichi compagni del nuovo spirituale, conoscenti ed amici, cortigiani, vedendolo per le Per le vie della città vicino a Filippo, in quella guisa, dicevano:

- Vedi Francesco Maria che fa il bigotto e porta in braccio quel grosso cane? Io lo ricordo quando era militare nelle Marche, tutto fiero nella sua veste, bello e maestoso come marte... A che s'è ridotto!

- Io ne so una più bella, diceva un altro. Un tempo era innamorato cotto di una dama... e passava continuamente sotto le sue finestre e non aveva pace e fu preso da una malinconia che pareva voler morire tisico.

- Ma questo non è tutto, aggiungeva un terzo, quel matto di Filippo non solo l'ha cambiato in governatore del cane, ma lo manda a spazzare negli ospedali, a lavare le scodelle dei malati ed a fare altri mestieri simili.

Qualche altro diceva ancora:

- Quella che vi dico è fresca fresca: in quella stanza che chiamano l'Oratorio, Francesco Maria aveva avuto un giorno l'ordine di fare un discorsetto in cui dimostrare l'utilità e nobiltà della sofferenza. Voi sapete che Francesco parla benissimo e fece un discorso che si poteva scrivere. Sul più bello, mentre gli ascoltatori erano rapiti, estatici, si sentì un rumore come di sedia smossa, poi si sentirono colpi di tosse ed altri disturbi che si seguivano. L'oratore cercò di superare il disturbo, non badandoci, e cercando di tener ferma l'attenzione. Macchél Si udirono dei ciaf, ciaf, ciaf, come rumori di grossi schiaffi. Che succedeva? Filippo, in fondo alla sala, con la palma della mano, percuoteva un pilastro e faceva quel chiasso e ciò durò fino alla fine e, forse, Francesco Maria abbreviò il suo discorso a bella posta. Non appena l'oratore si mosse dal luogo di chi parla, andò lui, quel Filippo, e disse su per giù: nessuno della nostra Congregazione ha ragione di gloriarsi come se avesse sofferto qualche cosa: dopo tutto, proseguì, non c'è nessuno qui che abbia sparso una goccia di sangue per amore di Cristo; anzi seguendo lui noi abbiamo riportato onore e riverenza. Filippo insomma fece fare una figuraccia a quel povero Francesco Maria. Vi par modo questo di trattare quell'uomo?

- E Francesco Maria non si offese?

- No, stava tutto compunto come per dire: sono un colpevole, un peccatore.

- Se fossi stato io, intervenne a dire un altro, non mi sarei tenuta l'offesa: avrei reagito, non so che avrei fatto, ma non avrei subito quella brutta figura!

- Se fossi stato tu, merlo, riprese il primo che, evidentemente la sapeva più lunga di tutti, se fossi stato tu al posto di Francesco Maria, ti saresti messo a piangere e avresti ringraziato P. Filippo. Tu non lo conosci quell'uomo! Egli fa diventare agnelli i leoni. Ti basti sapere che ha fatto diventare un medico libertino e prepotente, un divotello umile come un sagrestano.

Uno che perde la nave e trova la vita.

La vittima principale, il bersaglio preferito di Filippo, fu un uomo grandissimo la cui gloria da limiti ristretti della Congregazione dell'Oratorio e della città di Roma, sconfinò nel mondo della cultura universale.

La gravità dei giochi di Filippo non si potrebbe misurare se non si conoscessero alcune linee ed alcuni episodi di questo uomo - bersaglio - Cesare Baronio, da Sora, nato nel 1538 e morto il 1607.

Era andato a Napoli, giovane diciasettenne, per studiare legge ma, timoroso di torbidi di guerra, decise di trasferirsi a Roma, noleggiò un posto in una imbarcazione.

Il giorno fissato della partenza, con una grossa valigia sdrucita, il giovine arrivò al molo e chiese

- Dov'è la nave che doveva partire a quest'ora per Roma?

- La nave diretta a Roma, giovinotto, è partita che saranno dieci minuti. La vedete là sulle acque un pò distante? Voi siete in ritardo.

- Accidenti, disse lo studentello! Sono in ritardo, ho perduto così il mio danaro..., e dire che ne ho tanto poco! Ci voleva anche questa!

- Guardate, c'è un altra imbarcazione che parte tra poco: potrete approfittare di quella.

- Se non c'è altro da fare, pazienza.

- Passarono alcuni giorni e si seppe che la prima imbarcazione aveva fatto naufragio e tutti gli uomini erano annegati.

Fu questo il primo episodio di un grande destino: aveva perduto il prezzo del nolo, ma aveva guadagnata la vita.

Futuro grande ingegno ma gid grande cuore.

A Roma, prestissimo, Cesare cadde nella rete di P. Filippo ed intraprese la nuova vita spirituale con tanto entusiasmo che non pensò più ai famosi studi di legge che avevano montato la sua testa ed esaltata la sua speranza. Un giorno, il giovane ascoltava una predica nella Chiesa di S. Giacomo degli spagnoli ed il predicatore raccomandava alla pietà dei fedeli una famiglia poverissima: portate, diceva egli, danari, scarpe vecchie, vestiti usati, biancheria... hanno bisogno di tutto quei poveretti.

Cesare va a casa, prende le sole tre camicie che ha, le involge e le consegna in sagrestia al predicatore.

Il predicatore, ch'era quel frate Lupo dal cuore di agnello, si commosse quando Cesare gli disse che non aveva altro e che tutta la sua biancheria erano quelle tre camicie.

Il Lupo, dissimulando la sua ammirazione, chiese tante notizie al giovanotto e, piano piano, con finto disinteresse, gli cavò di bocca tutte le notizie che credette necessarie.

L'indomani, frate Lupo, nella predica narrò al popolo l'episodio e l'offerta delle tre camicie, descrivendo la figura del donatore, tozzo, alto, bruno, con i capelli arruffati e ne fece l'elogio.

Cesare anche quel giorno era al suo posto di uditore e quando udì le parole di frate Lupo per poco non gli scoppiò il cuore, si fece rosso rosso e fuggi via come un ladro.

Il predicatore delle pene infernali.

Diventato assiduo frequentatore dell'Oratorio, Cesare ci si sentiva tanto bene come un pesce nell'acqua: era felice, tutto inteso ad udire le prediche e tener gli occhi fissi sull'oratore.

Una sera l'oratore non si vede e il posto è vuoto: Filippo s'accosta a Cesare e gli dice imperioso

- Cesare vai innanzi e parla tu, questa sera. Era l'anno 1558 e Cesare stava in Roma da meno di un anno.

- Ma, Padre, io?... lo non so parlare. Non seppe dire altro mentre le fiamme salivano al viso e le gambe tremavano.

- Va ti dico! E non più parole.

Come per un miracolo, appena arrivato al posto dell'oratore e dette le prime parole o meglio balbettate le prime parole, trovò la via e, pur rozzamente, espresse bellissimi pensieri.

Una volta rotto il ghiaccio, ottenne facilmente di farsi ascoltare con interesse ma diceva sempre cose orribili e parlava di morte, giudizio, inferno, eternità.

Siccome egli sentiva quelle verità, riuscì sempre efficacissimo: la sua fantasia giovanile poi aiutava ciò che egli aveva raccolto dai libri.

Parlando una volta, per esempio, dell'eternità delle pene, disse così: se ad un dannato fosse detto che doveva restare nell'inferno, finché una formica passando e ripassando per un ponte di ferro non avesse consumato quel ponte, e poi sarebbe andato in Paradiso: quel dannato sarebbe stato subito felice pur dovendo aspettare miliardi di anni. Neppure allora però, concludeva Cesare, l'inferno sarebbe finito!

Pur in queste nere immaginazioni, Filippo che studiava il giovane intensamente, comprese che egli aveva un cervello straordinario, ed era un uomo eccezionale.

Fu questa grande scoperta di Filippo un avvenimento grande nella storia della cultura umana.

Spunta lo storico.

Non era passato molto tempo da quando Cesare aveva iniziato la sua nera predicazione, che Filippo lo chiamò e gli disse reciso:

- Cesare, da domani sera in poi, nell'Oratorio tu comincerai a parlare di storia della Chiesa e parlerai ogni sera: è ora di finirla con le tue prediche: ci fai morire tutti di spavento.

Per una illuminazione grande, soprannaturale, Filippo aveva compreso che, in quel periodo, era necessaria una grande storia della Chiesa da opporre alla colossale falsificazione storica protestante, sotto il nome di Centurie di Magdeburgo.

Filippo era sicuro che Cesare sarebbe diventato il grande storico della verità, ma egli non lo disse a Cesare quel cervellaccio aveva bisogno di essere affinato, preparato lentamente.

Anche per questo nuovo compito Cesare si oppose, ma le sue opposizioni s'infransero contro la volontà di Filippo. Anticipiamo qui ciò che avvenne dopo quasi un mezzo secolo, per non tornare più sull'argomento.

Cesare scrisse in dodici grossi volumi in folio la grande storia della Chiesa.

Il successo inizia con una penitenza.

Durante questa immane fatica, man mano che i volumi erano stampati, Baronio ne offriva la prima copia in omaggio a S. Filippo.

Il primo volume comparve nel 1581 e Cesare, giubilando, si recò da Filippo ed, in cuor suo, pregustava la gioia del Santo, le belle parole che gli avrebbe detto e tante altre cose simili.

Arrivato innanzi al Santo, guardandolo negli occhi, gli mise quel bel grosso volume tra le mani ed aspettava. - Bene, Cesare! Ora per compenso, per penitenza, servirai trenta Messe in chiesa e non ne devi omettere nessuna.

Non sappiamo come restasse il Baronio, era un uomo dopo tutto, e nella sua sensibilità dovette avvertire una grande ferita, ma egli era già un uomo di preghiera, di vita interiore, e potè anche non badare alla ferita.

Un altro avrebbe avuto un accidente!

Servire le Messe allora poi, benchè opera santa in se stessa, non era tenuta in considerazione e chi serviva le Messe era o un sagrestano o un chierichetto.

Il grande storico in uniforme.

In S. Giovanni dei Fiorentini, i preti conviventi, tra i quali il Baronio, dovevano spazzare chiesa e casa, fare tutte le pulizie e, non scolo servire a tavola, ma preparare la cucina per turno.

Lo storico Baronio, la cui faina ormai, anche per altri scritti, s'era diffusa nel mondo, compiva seriamente, scrupolosamente, la sua parte, ma c'era un altro servizio che ricadeva sulle sue spalle sole, data la sua condiscendenza e benignità.

- Cesare, gli diceva uno dei conviventi, -mi faresti domani il favore di preparare il cibo in luogo mio?

- Volentieri, volentieri.

Questo modo di fare divenne presto la furberia di tutti, che spessissimo, con dolci parole, dicevano: Cesare mi fa il favore ecc.

Ora quell'uomo dottissimo, grave, che non sapeva ridere, una volta, considerando questa sua situazione agli occhi del mondo, senti come un'ondata di umorismo, rise di se stesso, prese un pezzo di carbone dal focolare e scrisse sul caminetto: « Caesar Baronius Coquus perpetuus ». Non immaginava quell'uomo semplice e grande che quel suo gesto sarebbe diventato storico e così quella sua scritta: nei secoli seguenti infatti, i visitatori della casa di S. Giovanni dei Fiorentini leggevano, con riverenza il motto tracciato in nero.

Restauri piuttosto recenti fecero sparire la scritta incautamente e irriverentemente: ma essa è restata nel ricordo col nome del suo autore, ed una lapide ne fa la storia.

Durante la dimora del Baronio, nel detto luogo, personaggi importanti, non solo dell'Italia ma di tutta l'Europa, venivano per conoscere un uomo le cui opere ormai erano diffuse in tutto il mondo.

Riportiamo uno dei tanti episodi: arriva un grande pre. lato e dice, per esempio: io sono l'arcivescovo di Lisbona... Io sono il definitore generale dei Cappuccini... Io sono il teologo dell'università di Bologna e vorrei parlare con il reverendissimo P. Cesare Baronio.

- Mi dispiace, diceva il portiere, ma sta in cucina apparecchiando il pranzo.

- In cucina? Ma voi scherzate fratello mio! Baronio in cucina?

- Dico davvero.

- Io voglio lo storico non il cuoco... Hanno forse lo stesso nome?

- Ma no! Qui c'è solo il P. Cesare che si chiama Baronio e so che ora si trova in cucina.

Ad ogni modo, conchiudeva il visitatore, pensando ad un gioco, chiamatemi lo storico Cesare Baronio, dovunque si trovi.

Il portiere, seccato, finiva per obbedire ed ecco comparire Cesare con grembiule, più o meno bianco, col viso arrossato, i capelli disordinati.

- Ma siete voi, faceva il visitatore, Cesare Baronio, lo storico? Non è uno scherzo?

- Sono io, carne ed ossa... Abbiate pazienza: stavo preparando la minestra...

La situazione si chiariva alla superficie ma il visitatore poteva pensare: non saranno costoro dei pazzi?

Ed aveva ragione secondo la logica del mondo.

Un altro volume degli Annali e un'altra edizione di gioco.

Veniva fuori un altro volume degli Annali, e come se nulla fosse stato delle ricompense precedenti, Baronio si presentava a Filippo, per fare omaggio di una copia.

In una di tali occasioni capitò un funerale solenne in Chiesa e grande folla di amici del defunto, parenti, popolo si addensava.

S'era formato il corteo ed un fratello laico reggeva la grande Croce che lo apriva.

Filippo fa un cenno a Cesare, che gli stava vicino e gli dice

- Cesare, prendi di mano la Croce a quel fratello e portala tu.

- Dammi la croce, chiede Cesare arrivato di fronte al fratello.

- Ma non la do! Voi siete un sacerdote e poi!... non conviene.

- La debbo portare io. - Non la cedo dico...

- Me l'ha detto il P. Filippo! Lo comprendi tu? Allora il fratello cede.

Tutti del corteo, a quello spettacolo, guardano, sorridono, commentano sotto voce.

La processione si snoda per le vie, e si colgono frasi di questo genere: Vedi quello là che porta la Croce? Quello è uno degli uomini più dotti del mondo. Che figuraccia!

- Ne avrà fatto una grossa, se P. Filippo l'ha punito così. Certe cose P. Filippo non le dovrebbe permettere.

- Forse la porta per devozione sua.

Qualcuno passa vicino al paziente e lo canzona amabilmente: pesa neh? Coraggio, dopo avrai venti giulivi! (moneta del tempo).

Episodi del genere furono ripetuti parecchie volte anche per altri.

Il destino di un diploma di laurea.

Una disciplina così severa alla quale Filippo formava i suoi, pure apparentemente strana, raggiungeva uno scopo sublime, quello di distaccare il cuore dalle cose del mondo.

Cesare arrivò all'eroismo, come si potrebbe vedere in molti fatti, ma noi ne riportiamo uno solo.

Quando Cesare si mise a seguire Filippo, abbandonò gli studi di legge, ma il padre di lui, che sognava un figlio dottorone sopportò male la cosa e non mandò più quattrini al figlio, per farlo rinsavire.

Era disperato quel padre deluso per la sorte del figlio, ma Cesare, dopo parecchio tempo, volle placare l'ira del genitore, medicare la ferita, e alla svelta, intelligente come era, prese la laurea di dottore e n'ebbe il diploma in bella e decorata carta pecora.

Generalmente quelli che ottengono un diploma lo mettono in una bella cornice e lo collocano, in casa, in luogo molto evidente, perché chi entra ascolti l'ammonimento: badate, il padrone di questa casa è un dottore!...

Cesare, evidentemente, non si curò di collocare quel diploma come tutti gli altri, ma forse lo mise in cassetto, buttato là.

Un bel giorno, però, Cesare aveva bisogno di pezzetti di carta per segni nel libro che leggeva: cercò con gli occhi una carta inutile e non, la trovò: gli occhi gli caddero alla fine sul diploma: non ci pensò due volte, lo prese, lo tagliò in tante striscie e ne fece quei segnali occorrenti. Del diploma di dottore non gli restò più traccia... Se lo avesse saputo il padre l

Le prove più grandi.

Una medicina pericolosa. Baronio per la sua vita sedentaria, s'era rovinato lo stomaco e l'intestino e, una volta, si ridusse in condizioni così gravi che non poteva quasi più prendere cibo.

Il P. Filippo lo fece chiamare e venire in camera sua e gli additò una pagnotta, che sarà stata ben rafferma ed un grosso limone e gli disse

- Cesare tu devi mangiare questa pagnotta e questo limone: subito e tutto.

- Ma io muoio! Mangiare quella roba è impossibile.

- Avanti, Cesare, ti ho detto.

Il Baronio stesso, che confidò il fatto a chi poi ne lasciò memoria, dice che ebbe una grossa paura di morire. La sua fede in Filippo però fu più forte della sua paura: mangiò tutto alla meglio, non ebbe nessun disturbo, anzi si sentì guarito.

Insegnante ed accattone.

Come altri, Filippo mandava Baronio ad insegnare catechismo alla gente rozza ed ignorante dei castelli romani vi restava normalmente due o tre giorni.

Questi catechisti però non dovevano avere provviste e dovevano chiedere elemosina per mangiare: era ben duro davvero chiedere elemosina a gente povera e presso la quale poi uno aveva compiuto il nobile ufficio d'insegnante. Non solo gli alimenti bisognava talvolta mendicare, ma qualche altra cosa.

Un giorno Filippo fissa un po' Baronio, come se lo vedesse per la prima volta, e gli fa questa paterna osservazione:

- Cesare, questa tua veste è troppo vecchia, rovinata ed ha anche qualche toppa e perciò bisogna smetterla assolutamente.

- Lo vedo anch'io, Padre, ed è necessario comprarne una nuova al più presto possibile.

- Questo lo so anch'io, ma comprarla sarebbe troppo facile.

- Però non la possiamo rubare: occorre trovare una altra via.

- L'altra via è che tu la chiedi in elemosina!

E Cesare si metteva in giro, e, a furia di canzonature, di beffe, di figuracce, riusciva finalmente a trovare.

Certo, le persone richieste capivano che sotto quel gioco c'era lo zampino di Filippo.

Filippo comanda a Cesare di comandare.

Era ammalato grave il cuoco di casa, di cui avremo a fare cenno in seguito, e Filippo incaricò Baronio, lo studioso tosi incapace di fare le piccole cose pratiche della vita... di assisterlo, come se fosse un infermiere di professione.

Quell'uomo obbediente compi come meglio poté quel suo nuovo dovere ma contrasse anche lui la stessa malattia con febbre altissima.

Qualcuno riferì la cosa a Filippo, con una certa preoccupazione, in un momento di crisi più acuta del male.

- Padre, Cesare ha una febbre da cavallo che mette paura!

- Bene, dice Filippo, ritorna da Cesare e digli che comandi alla febbre in nome mio di andare via.

Questo è un bel rimedio, dice tra sè il messaggero andando via... Il povero Cesare se la prenderà con me come se lo volessi beffare. Ad ogni modo, «messaggero non porta pena»: farò così.

Cesare a differenza di quello che pensava chi riferiva, accolse l'ordine, con la stessa naturalezza come se Filippo gli avesse comandato di bere un bicchiere di vino.

L'ammalato, richiamando al suo cuore tutta la fede di cui aveva bisogno, prese l'atteggiamento di chi parla ad una persona viva, sordastra e poco docile e disse con imperio, ad alta voce:

- Febbre, in nome di P. Filippo, ti comando di andare via.

Come se avesse visto una persona voltar le spalle ed uscire, l'ammalato si vesti e andò con passo di persona sana alla basilica di S. Pietro, distante un mezzo miglio.

Il fatto è riferito dal Bernabei ed è di evidente provenienza diretta del Baronio, come indicano le circostanze.

Un gioco da monelli.

Baronio confessò che, per studiare, non s'era mai potuto cavare di dosso completamente ii sonno con una buona dormita.

Per rimediare, in qualche modo, e resistere poi a protrarre lo studio fino ad ora tarda, dopo pranzo, faceva un pisolino.

Ma quel pisolino diventava nel nostro personaggio così stanco e grosso, un pisolone, un sonno profondo.

Filippo, un giorno, vede quel suo buon figliolo così affondato nel sonno e pensa un gioco simile a quello dei ragazzi, che pigliano gusto a molestare il cane che dorme.

Chiama egli un giovinetto, come ci racconta autorevolmente Aringhi, Agostino Boncompagni, e gli dice:

- Agostino, prendi in camera mia quel cappellone da cardinale, che io ho tirato or ora da una cassa, e mettilo in testa a Cesare che dorme.

- E se si sveglia? Non si offende? E potrebbe anche sgridarmi e darmi tubo scopaccione.

- Fa come ti dico, con modo, piano piano e poi, quando Cesare dorme non lo svegliano neppure i tuoni.

La commissione fu eseguita con compiacimento dei ragazzo, come se fosse stata di sua invenzione.

Cesare seguitò a dormire per tal pezzo ancora, ma quando si svegliò sentì qualche cosa sul capo e portò la mano in alto: guardando il cappello, forse poté pensare istintivamente: che gusto! Mi hanno interrotto quel poco di sonno! Pazienza... Ci sono dei matti al mondo.

Ma forse egli respinse questi pensieri come una tentazione, poiché aveva troppa venerazione per Filippo. E così rise anche lui.

Quando Cesare, più tardi, fu creato cardinale, forse si ricordò di quel gioco e poté riflettere che non era stato un gioco da matto, ma quasi tal gesto profetico.

Una beffa atroce.

La beffa più dura fu quella di far credere a Baronio che qualcuno si accingeva a scrivere contro di lui, già famoso, attaccando i suoi applauditi Annali.

Filippo mette in giro la diceria che il contraddittore era Antonio Gallonio, pure lui di Congregazione e più giovane del Baronio di diciasette diciott'anni, allora alle prime armi come storico e quindi per niente capace di far la critica agli Annali.

Baronio cadde nella trappola come un ingenuo contadinello, perdette la pazienza e reagì: vogliono dirmi ora che ho sbagliato? Dovevano dirlo prima che io stampassi.

Pensiamo che il giovane Gallonio fosse complice consapevole, perché egli recitò una parte troppo lunga e troppo ben fatta.

Cesare si va sfogando a destra e sinistra e scrive perfino a Napoli al P. Talpa, una lettera che si conserva tuttora e ch'è tutto un pianto amaro.

In casa e fuori se la ridevano sotto i baffi, ma Cesare non dubitava.

La diceria va fuori, arriva al Vaticano, alle stesse orecchie del Papa e anche la è un bel ridere.

Sopravvennero gli scrupoli: Cesare, ch'era uomo di Dio, cominciò a temere di offendere la carità, polemizzando. Piuttosto che offendere la carità, si propose egli, avvenga quel che si vuole, io voglio tacere, soffrire e « far da cristiano, come scrive egli stesso, e perdere per vincere ».

Cesare enunziò così, senza averla troppo cercata, una massima di altissimo valore ascetico e cioè perdere la lite per vincere nella virtù.

Piano piano la diceria si esaurì per via e, dopo parecchio tempo, seppure per ultimo, Cesare poté ridere di se stesso.

Un puntiglio finto che minaccia di diventar vero.

Il pontefice concesse a Cesare Baronio una grossa pensione, quando si trovava in difficoltà, per via dei quattrini, a proseguire la stampa degli Annali.

Il pensiero che egli potrà ora lavorare serenamente bene, e compiere la grande impresa iniziata, lo esalta e lui, così grave, ci scherza come un bambino e scrive al Cardinale Federico Borromeo: «Io non sono più un furfante. Sua Santità mi ha dato quattrocento scudi di pensione, saprò anch'io far del grande e spacciare il quamquam » e cioè darmi importanza.

Baronio era allora un semplice prete e seguitando nel suo gioco, poté aggiungere al suo amico Cardinale: « Avrà a grazia a potermi scrivere fratello carissimo ».

Ma su tanto sole, ecco una grande nuvolaglia.

Tutti i preti della Congregazione, allora, crome anche oggi, contribuiscono con una certa somma, come possono, alla vita comune.

Se non possono, danno niente e Baronio, fino allora, non aveva contribuito.

Filippo allora, non per gioco, ma per una di quelle manovre sapienti che portavano alla perfezione, fa dire a Cesare:

- Ora che hai i quattrini del Papa, devi pagare anche tu la pensione.

- Questo no, dice quell'uomo scrupoloso: i quattrini del Papa sono per la stampa degli Annali ed io non posso distorglierli in altro uso.

- Comunque tu li abbia, non importa: li hai e devi pagare la pensione.

- Io non la pago in nessun modo.

Così si svolse, su per giù il dialogo, che s'inasprì per via.

Filippo, che voleva salvare un principio di vita comune nella Congregazione e la virtù dell'obbedienza nel Baronio, sentenziò severo: o pagare o uscire di Congregazione.

A questo punto interviene il P. Tommaso Bozzio il quale fa capire al Baronio che quello suo è uno scrupolo perché, contribuendo alla vita comune, quella quota parte della pensione serviva per lui Cesare che si sacrificava per gli Annali. e quindi, indirettamente anche per gli Annali. Gli scrupolosi sono fatti così: anche quando sono grandi in altre cose, nello scrupolo diventano piccini.

Baronie comprese finalmente, si fece accompagnare dallo stesso Bozzio, si gettò ai piedi di Filippo, pianse e chiese perdono.

Filippo, grande come sempre, rispose: Ora questo appunto io volevo da te: tieni pure i tuoi danari, che non mi curo che tu dia cosa alcuna alla Congregazione, mi basta l'obbedienza.

La «foglietta » di vino.

Gli osti non sono sempre di buon umore e scattano subito: costretti a badare a tanta gente, i loro nervi vibrano presto.

Un giorno venne in mente a Filippo di lanciare Cesare in pasto ai nervi di un oste.

Egli gli fece prendere un « boccione » cioè un recipiente capace di contenere un dodici litri di liquido, e poi gli disse:

- Devi fare un buon servizio, andare da quell'oste che tu sai, con questo boccione che vedi e comperare del vino, una mezza foglietta. Bada però che prima lavi il boccione, poi vai in cantina a vedere dove ti da il vino, affinché sia buono: dopo poi darai all'oste uno scudo d'oro e ti devi far rendere il resto.

L'oste, come vide arrivare il cliente con quel boccione, si rallegrò pensando: è un buon affare.

Cesare poi chiese di saggiare le varie specie di vino e l'oste seguitò a rallegrarsi.

Quando poi Cesare pretese che il recipiente fosse risciacquato e disse finalmente: ora versatemi qua dentro mezza foglietta di vino (un quarto...) l'oste montò su tutte quante le furie e per poco non mise le mani addosso a Cesare quando si vide richiedere il resto di uno scudo.

Se Cesare scansò le botte fu un miracolo.

Una Cantata fuori posto.

Tra le donne più brave e più beneficate da Filippo v'era una certa Gabriella da Cortona, la cui storia graziosa s'intreccia più volte meravigliesamente con la vita di Filippo, e noi abbiamo riportato di lei un dolce episodio.

Tra gli altri beni che Filippo fece a questa donna, fu di farle maritare una figliola: cosa rara poi, Filippo andò al banchetto di nozze con tre persone già autorevoli tra i suoi seguaci: Francesco Maria Tarugi, Francesco Bordini ed il nostro Cesare.

Il gruppo dava molto onore e grande solennità alla piccola festa; mentre tutti chiacchieravano allegri dopo i discreti bicchieri di vino, Filippo dice a Cesare:

- Cesare, ora tu ci devi rallegrare con un bel canto. - Io non so nessuna canzone allegra, Padre.

- Ti dico io la canzone più allegra: canta il « Miserere» (salmo di penitenza che per lo più si canta nei funerali).

- No, Padre, no: questa gentarella è superstiziosa e crederanno il canto del Miserere come un cattivo augurio. - Canta il Miserere ti dico e molto bene!

Non sappiamo cosa successe di preciso, ma la conversazione dovette certamente languire, mentre tutti si guardavano stupiti e gettavano occhiate ostili sul cantore improvvisato, che neppure se ne accorgeva.

- Smetti, smetti, diceva più di uno a Cesare, non sapendo l'ordine di Filippo, ma il poveretto guardava il Santo per sapere se smettere o seguire e dovette continuare fino alla fine.

Le azioni di Cesare salgono.

Per quante astuzie trovasse Filippo, per mantenere Cesare in umiltà, le sue azioni salivano, salivano nell'opinione pubblica ed un bel giorno scoppiò come una bomba questa notizia: Cesare è stato nominato confessore del papa Clemente VIII.

Era vero quando Filippo gli comunicò la nomina, Cesare si buttò ai piedi del Santo e disse

- Padre Filippo, ciò non è possibile i Cercate di mettere ogni impedimento e dite pure al Santo Padre che io sono uno sciocco, un inetto: ditegli insomma ogni male di me. Io non solo ve ne do licenza, ma ve ne prego.

Cesare cominciò le sue lamentele con tutti quelli che erano in casa, e nel 1594 scrisse una lunghissima lettera al confratello Talpa il cui contenuto è questo: ho cinquantasei anni, ho i capelli bianchi, sano consumato dalle fatiche, e per giunta mi capita questo grande guaio.

Il Papa ebbe ad accorgersi presto che quel confessore non era una pecorella paurosa e docile.

Dovete sapere che allora c'era una grande controversia e cioè se il Papa dovesse ammettere o non ammettere nella chiesa Enrico IV di Navarra, già precedentemente caduto nell'eresia ed ora pentito.

Baronio era del pensiero che bisognava assolvere Enrico ed ammetterlo nella Chiesa.

La questione andava per le lunghe, intervenne anche Filippo e sapete che fece? Ordinò al Baronio di portare questo messaggio al Papa: il P. Filippo si prende lui la responsabilità di questa ribenedizione di Enrico e si obbliga a renderne lui conto a Dio.

Peggio ancora: dette al Baronio questo ordine perentorio: se il Papa non vuole, come si dice, riconciliare il Re di Navarra e riammetterlo nella Chiesa, tu rifiuta di ascoltare le sue confessioni.

Era come dare l'ordine al Baronio, per quanto dipendeva da lui, di non assolvere il Papa...

Un grande dramma in tre atti.

Primo atto: il Papa scappa per ridere.

La carriera ecclesiastica del Baronio è questo dramma del quale non si trova altro simile nella storia ecclesiastica.

Esso è il frutto dell'educazione ascetica, che Filippo aveva data al Baronio, con tutte quelle beffe e quei giochi detti innanzi.

Qui bisogna premettere che Cesare aveva tanto profittato di questa educazione che, per lunghissimi anni, anche quando era vegeto come una quercia, faceva ogni giorno l'apparecchio alla morte, come se l'indomani dovesse morire.

Ora il Papa Clemente VIII, un bel giorno del 1595 pensò: il P. Cesare, mio confessore, scrittore degli Annali e di altre .grandi opere, bisogna promuoverlo per ora, almeno al protonotariato apo:ti.lico.

Il protonotariato apostolico è una grossa onorificenza, ecclesiastica.

Riassumiamo qui il racconto autentico da una lunghissima lettera del Baronio stesso.

Il 20 novembre, il papa si confessò e, invece di andare via, come il solito, si mette a sedere, « come se avesse a fare un'azione pontificia » e dice

-- P. Cesare, desideriamo da voi una grazia...

- Vostra Santità mi mette paura con l'esordio di chiedere una grazia.

- E' conveniente che lo scrittore degli Annali abbia il titolo dì protonotario.

- Gli Annali si sono diffusi senza questo titolo, e se Vostra Santità proprio lo vuole, si può mettere sotto il mio nome il titolo di protonotario, senza darmi la dignità. Essere fatto protonotario e portarne, le vesti sarebbe un scandalo per quei visitatori esteri che mi hanno sempre visto con una veste spelata ed unta.

- Per santa obbedienza, dovete accettare.

- Vostra Santità mi dia qualche giorno da pensare.

- Per santa obbedienza, vi comando di accettare. Baronia, spaventato dalla minaccia, tremava con la voce, balbettava e non riusciva a concludere una frase.

Il Papa si mise a ridere, ripeté la minaccia e poiché Baronio insisteva sempre più spaventato, dette di mano al campanello e suonò.

S'apri una porta e comparvero il Maestro di Camera del Papa ed un altro monsignore con un fascio di vesti paonazze.

- Spogliate P. Cesare delle sue vesti, mettetegli queste altre vesti paonazze e poi, così vestito, conducetelo da me, nell'altra stanza, dove io gli imporrò il rocchetto (altra insegna dei grado).

Cominciò una lotta: i due gli volevano strappare il ferraiolo, ma Cesare se lo teneva stretto: la lotta durò un pezzo, ma non potendo resistere a due, Cesare si buttò per terra.

Era tutto sudato e la camicia era inzuppata.

- Son partito da casa, piagnucolava egli, con la semplice veste di prete e non sarà nrai che io torni con la veste prelatizia.

Così buttato per terra gemeva

- Monsignore, per carità, pregate Sua Santità che mi dia almeno un celo giorno di teinpo, uno solo, prometto di non fuggire: domani tornerò e sarò quello che il Papa vuole l

Urlo dei due ebbe compassione ed andò dal Papa a porgere la preghiera.

Il Papa comparve, ma questa volta turbato, e disse:

- Non son contento di voi, Baronio, proprio non sono contento. Vi concedo un giorno di tempo, ma a malincuore. Il Papa stesso però ebbe compassione e aggiunse qualche parola, per rendere dolce la pillola.

- Non voglio che voi lasciate la casa della Congregazione, non voglio farvi mutare metodo di vita, ma voi dovete obbedire.

Ritornato a casa, Cesare andò difilato alla tomba di S. Filippo e pianse copiosamente, per quello che lui stimava un guaio ed altri avrebbero ritenuto grande fortuna.

Furono adoperati tutti i mezzi dai Padri della Congregazione, perfino l'intervento di cardinali, ma il Pontefice restò fermo.

Come risposta a queste manovre l'indomani arrivarono, nella sagrestia della Chiesa Nuova, Monsignor Diego e qualche altro con le vesti prelatizie.

In sagrestia Mons. Panfili, l'Abate Maffa ed altre persone circondarono Baronia e con violenza gli strapparono le vesti e gli misero te vesti prelatizie.

Poiché il Baronio evitava di mostrarsi con le vesti prelatizie, il Papa, :ton appena lo vide, lo rimproverò e gli disse:

- Guardate che posso adottare altre misure più gravi per voi.

- Piuttosto che obbligarmi ad andare con le vesti prelatizie, Vostra Santità mi mandi o in Inghilterra (allora tutta eretica) o nelle Indie o in una prigione a Tor di Nona.

Secondo atto: la minaccia di scomunica.

A breve scadenza da questa tempesta, cominciò ad apparecchiarsene un'altra: nel 1596, si sparge per la città una voce: Baronio sarà creato cardinale.

Tutti ci credono ma lui, per la sua umiltà, non ci crede, tanto si pensava indegno. -

Un bel giorno il Pontefice ben conoscendo l'uomo, mandò alla Vallicella Mons. Offredo degli Offredi ad intimare domani Baronio non si muova di casa, perché deve essere condotto a Palazzo per prendere l'abito cardinalizio. Cesare, per risposta fece sapere che sarebbe andato a Palazzo, ma non per prendere l'abito cardinalizio, sebbene per esporre al Pontefice le ragioni per cui non poteva accettare.

Il Papa non andò a letto quella sera alla solita ora, non sicuro di ciò che Baronio avrebbe tentato e comandò al cardinale Aldobrandini: impedite al Baronio che venga da me: non voglio riceverlo: sorvegliate che non fugga. Cesare infatti, aveva pensato di darsi alla fuga.

La mattina appresso, andò a tante porte per uscire fuori ma trovò sbarrate tutte le vie d'uscita.

Il Pontefice troncò le ultime resistenze e sentenziò: Se Cesare non accetta io lo scomunico.

Il poveretto che aveva una fede non minore della sua umiltà, crollò.

Terzo Atto: è buttato verso il papato e lo respinge.

Baronio, nel corso della narrazione della storia ecclesiastica, attaccò certe pretese della Spagna in materia religiosa: Spagna e satelliti attaccarono, alla loro volta, il Baronio.

In questa situazione, mori papa Clemente VIII, e si riunì la grande assemblea di cardinali che, con termine ecclesiastico, si chiama Conclave, per eleggere un successore al pontefice morto.

In quelle movimentate elezioni, Baronio arrivò ad avere trentadue voti: mancava solo un voto per essere eletto. Egli però non lavorava per se stesso, ma per il cardinale Alessandro Medici che prese il nome di Leone XI. Questo nuovo pontefice era stato amico e penitente di S. Filippo, il quale una volta gli disse: Signor Alessandro, voi sarete papa, ma durerete poco.

Lo stesso pontefice Leone XI ci credette e quando i cardinali, in atto di obbedienza andavano a baciargli i piedi, subito dopo l'elezione disse: Daremo poco fastidio, perché dureremo poco. Regnò ventisette giorni.

Si apri l'altro conclave, più movimentato, e dopo molte vicende, i votanti si accordarono sul nome di un lombardo, per eleggerlo papa, il cardinale Tosco.

Era un uomo senza un pelo su la lingua, e coraggioso. acuto.

C'è di lui questo episodio che, quando venne a morire, vecchissimo, qualcheduno, come usava allora, nell'imminenza della morte, gli disse di prepararsi a comparire innanzi a Dio.

Anche in quel momento Tosco non perdette il suo umorismo e disse ad un familiare: Dà la mancia a questo messaggero.

Un tale uomo, dunque, era già portato verso il luogo dell'elezioni da tutti i cardinali, meno Baronio e Tarugi che passeggiavano in disparte, addolorati.

Il Baronio infatti riteneva meno opportuna l'elezione del Tosco. Egli si fece incontro alla massa dei cardinali, l'apostrofò e bollò a sangue il candidato Tosco.

L'effetto fu immediato, terribile: la massa si disgregò. Non sapendosi più che fare, il cardinal di Montaltc disse ad altissima voce indicando con la mano il Baronio Perché non facciamo papa questo santo uomo? Facciamo lui, facciamo lui!

Il cardinal Giustiniani si mise a gridare: Baronio, Baronio!

- Baronio, Baronio, gridarono molti altri.

-- Tosco, Tosco, risposero quelli che restarono fedeli al primo candidato.

La massa si divise in due ed una parte si diresse col Tosco.

Quelli però che portavano il Baronio lo spingevano con la forza di un'ondata furiosa verso la cappella Paolina, per fare l'adorazione, come si diceva allora, e cioè l'elezione.

Quando Cesare si accorse e capi che ormai i più lo spingevano per crearlo papa, cominciò a resistere, supplicò, gridò, ma nulla valeva perché la spinta diventava sempre più forte.

Egli allora cominciò ad attaccarsi alle porte, alle colonne che trovava sul passaggio e gridava: «io non voglio essere papa, fate uno più degno di me».

La lotta non poteva durare così furiosa e si esaurì nella confusione, generale, per il rifiuto sempre più energico del Baronio.

Messo da parte il cardinal Tosco, gli elettori si fermarono sul nome del cardinal Borghese, che si chiamò Paolo V.

Ad elezione avvenuta Baronio disse: costui è migliore di me.

Si senti libero come se avesse superato un pericolo di morte.

Un barbaro.

Il Baronio non fu papa e, perché non volte e, per le circostanze dette, ma anche per un'altra ragione appena afSorata.

Era rigido, austero, montanaro impetuoso nel parlare e nell'agire, e S. Filippo lo bollò col nome di « barbaro ». Il Santo anzi gli predisse: « tu sarai cardinale ma non sarai mai papa per la tua natura fiera e rigida».

Il Santo giocava su questo rame di barbaro. Talvolta, in presenza di uomini dotti, nobili diceva vedete questo omone? E' dotto, è profondo e scrive grandi libri, mentre io sono un povero ignorante, però è un barbaro.

Ci teneva a mettere in mostra praticamente una cosa simile.

Ecco una scena inventata per dar risalto alle sue parole, e ripetuta parecchie volte, e con diverse persone. S'era in molti, un giorno, in camera del Santo e Filippo ordinò al Baronio:

- Cesare, mettiti a sedere su quel piccolo sgabello e ascolta tranquillo.

- Voi, Abate Maffa, dovete farmi la cortesia di dire a voce alta a Cesare tutti i suoi difetti, parlare della sua città natale e di quanto si trova da riprovare.

Maffa, con un gusto speciale, cominciò allora una filza di questo genere:

- Vedete Cesare là, tozzo come un montanaro, con i capelli disordinati come un selvaggio: egli è-da tanti anni a Roma e pare che abbia lasciato solo ieri la Ciociaria. Non sa dire mai una parola gentile, non sa mai sorridere: si comporta come se tutti gli altri fossero dei peccatori e lui un santo... Non ha discrezione, non ha buon senso ecc.

Agostino Manni che era presente dice che l'Abate Maffa parlava copiosamente, Cesare era fermo, serio come se udisse un panegirico.

Gli altri ridevano e sghignazzavano e, alle battute più forti, facevano baccano.

Quando l'abate ebbe finito, Filippo gli disse gentilmente ma fermamente:

-- Signore Abate, ora fatemi il piacere di dire tutto il contrario di ciò che avete detto finora e mettete in luce la scienza, la cultura, la bontà e tutte le grandi virtù di Cesare.

Fonte: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA (GIUSEPPE DE LIBERO) - Libro scaricato dal sito www.preghiereagesuemaria.it