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Domenica, 28 aprile 2024 - Misteri gloriosi - San Luigi Maria Grignion da Montfort ( Letture di oggi )

Don Nikola Vucic:Nella vita quotidiana capita spesso che ti irriti presto se una persona non si comporta come vorresti tu. Ti innervosisci e rischi di perdere la pace interiore. Allora, che fare? Sì, puoi ricorrere alla correzione fraterna, ma poi affida tutto a Dio e prega. Dio permette certe situazioni per edificati e per darti la forza di sopportare con umiltà e carità i difetti degli altri. Devi imparare a rimanere calmo anche quando chi ti sta accanto si comporta in un modo che a te sembra sbagliato. Se Dio non si stanca di quella persona e non toglie quel difetto - e magari per questo attende un momento opportuno - anche tu dovresti avere la stessa delicatezza, pazienza e speranza nei confronti degli altri.
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Meditazioni sulla vita di San Filippo Neri



San Filippo neri



LE FONTI DELLA GIOIA

La clinica chirurgica per ringiovanire i vecchi.

Richiamiamo alla mente che la gioia è il frutto della sanità, come abbiamo dimostrato in altre pagine di questo lavoro.

La prima fonte della gioia è dunque la sanità e il fanciullo n'è l'esempio più bello: chi più gioioso di lui? Perché?

Perché il fanciullo è, generalmente, sano nel corpo, nella primavera della sua vita in pieno sviluppo, e sano similmente nello spirito perché innocente, senza i mali che attaccano l'anima, mali che noi designiamo complessivamente col nome di malizia.

Il Vangelo, con la sua infinita autorità, ci espone questa dottrina ire una maniera drammatica.

Gli apostoli, come la maggior parte dei Giudei, ritenevano che Gesù, quale Messia, avrebbe fondato un regno di giusti, di persone perbene, che egli chiamava regno di Dio, ma in questa terra e perciò regno terreno con i suoi gerarchi, capi e sottocapi, generali e, come diciamo noi, marescialli...

Una gara pertanto era sorta tra gli Apostoli, per una certa gelosia per chi sarebbe stato il capo di questo regno di Dio, il primo ministro, per dire così, perché vedevano Pietro e qualche altro Apostolo, troppo preferiti dal Signore e come candidati al comando supremo.

Per uscire da questo dubbio, gli Apostoli, con una finta semplicità, perché un pò di malizia l'avevano anche essi, si avvicinarono a Gesù e gli domandarono chi sarebbe stato il fortunato, il più grande, il primo nel regno di Dio.

Gesù chiamò un fanciullo di quelli che stavano attorno, lo pose in mezzo e disse: vedete questo fanciullo? Sappiate, prima ancora di dire chi sarà o non sarà il primo nel regno di Dio, che non entrerete nel regno di Dio, se non diventerete piccoli come questo fanciullo: una volta poi diventati fanciulli, è chiaro che sarà il primo quello che è più piccolo.

Gesù ritornò su questa verità in un'occasione più grande e in una maniera più viva.

C'era un fariseo, un certo Nicodemo, buono; pio, ma un pò paurosetto.

Egli amava Gesù, però, per non essere sospettato suo amico dai nemici, una volta andò a trovarlo, di notte e si trattenne in un lungo discorso.

Egli mosse al Signore delle domande molto gravi e quando si venne all'argomento del regno di Dio, gli disse bello e chiaro, non come aveva detto agli Apostoli che bisognava ridiventare bambini, ma in una maniera più forte, che bisognava nascere da capo...

Il povero uomo restò stordito... Rinascere? Che discorso è questo? Come può mai un uomo già vecchio rientrare nel seno di sua madre ed essere di nuovo messo al mondo, piccoletto, piccoletto?

Il fariseo aveva compreso in una maniera grossolana la parola di Gesù e una spiegazione come il fariseo aveva chiesto non si poteva dare: e pertanto gli disse indirettamente: caro Nicodemo, non capisci niente!...

Ma questa espressione sarebbe stata offensiva e poco bella in bocca a Gesù e perciò rispose, pur nella stessa sostanza : tu sei un maestro in Israele, un dotto e ignori queste cose? Hai preso un qui pro quo, lucciole per lanterne, come diciamo oggi noi.

Il fariseo, con la testa ripiena di formule concrete e materiali, non aveva neppure sospettato che rinascere, ridiventando fanciulli, voleva dire tornare ad essere, pur nell'età avanzata, semplici, veritieri, fiduciosi come i fanciulli. La prima fonte della gioia è questa, e neppure c'è possibilità di compromesso: il profeta Isaia, parlando a nome del Signore, scrive: « Non v'è pace per gli empi».

La pace poi è il sommo della gioia, è la gioia diventata condizione, stato permanente di vita.

Or, dopo quanto abbiamo detto, si può vedere il segreto della ricchezza di gioia di S. Filippo, ricchezza che egli possedeva in tanta abbondanza da poterla poi riversare nell'anima altrui.

Egli aveva accumulato questa ricchezza nell'innocenza straordinaria della sua vita senza contaminazione di peccati veniali, piuttosto importanti, e senza frattura di peccati mortali.

Egli, pertanto, dai primi giorni fino agli ottant'anni, ebbe i modi, i gesti, i pensieri, il cuore di fanciullo, pur nell'accrescimento di quella dottrina e di quella saggezza che lo rese il consigliere, il maestro, la guida del popolo romano.

Fu inoltre, per questa ragione, straordinariamente indicato, per riportare gli uomini ad una rinnovata fanciullezza, specialmente col ministero della confessione.

La confessione, o meglio il potere di perdonare i peccati in nome di Dio, è di tutti i sacerdoti, ma per Filippo fu un ministero così intenso, continuo, vario di accorgimenti, che la confessione stessa può essere rassomigliata ad una fucina magica per svecchiare la gente e riportarla alla puerizia.

Lo si può rassomigliare ad un fabbro sempre pronto nella fucina ad accogliere i clienti che dovevano essere operati.

In chiesa, in casa, al letto, in piedi, di giorno, di notte, il fabbro era sempre pronto: pensate che il giorno stesso della sua morte, fino a qualche ora prima, nella notte tarda, confessò numerose persone.

Ma chiediamo scusa di aver rassomigliato Filippo ad un fabbro: vogliamo chiamarlo, come nel titolo di questo capitolo, un chirurgo che rifà l'organismo, come non possono fare i chirurgi che conosciamo.

Conoscenza di alcuni operati.

Un giovane di famiglia molto buona e amica del Santo, andava da lui tosi per divozione, nella sua grande familiarità.

Un giorno, come il Santo si vide innanzi il giovane, si mise a piangere dirottamente...

Perché? Filippo aveva conosciuto chiaramente, se per un intuito naturale o per un lume superiore, lasciamo andare, che il disgraziato aveva commesso peccati grossi e vergognosi.

Il suo volto era turbato, contratto, l'occhio come velato, fuggente, e tutta un'inquietezza, distesa come maschera sul viso.

Ci fu un silenzio penoso che il giovane non sapeva spiegarsi,... cominciò a riflettere.

Un uomo in peccato grave è nella condizione di una persona che si ferisce gravemente con un grosso chiodo, per esempio, che gli penetra nella carne.

E' avvenuto un trauma, un corpo estraneo è penetrato, s'è conficcato nei tessuti: il peccato è come un chiodo che si conficca nell'anima.

Il giovane, nel riflettere, dando uno sguardo a se stesso e prendendo coscienza del suo stato, comprese perché il Santo piangeva.

Come egli stesso poi ebbe a deporre nel processo, narrando in terza persona, taceva per vergogna al suo confessore, che non era Filippo, un peccato grave, e così commetteva un altro peccato più grave e cioé quello di sacrilegio.

Il giovane cominciò a piangere anche lui profondamente: la via per l'operazione era aperta: egli cadde ai piedi del Santo e si confessò.

Si rialzò e il suo volto era rasserenato, disteso, gli occhi brillavano senza più quel velo di tristezza, come l'aspetto di uno che da uno stato di paura torna alla sicurezza.

Filippo fissò allora il giovane e gli osservò: hai mutato faccia)

Tutto il resto si svolse come una festa, una grande festa.

Del resto questo fenomeno che noi abbiamo descritto si può osservare sostando accanto ad un confessionale, mentre le persone attendono il loro turno ;per confessarsi si notano volti oscuri, preoccupati, sofferenti.

Guardate uno di costoro dopo la confessione: è sereno, soddisfatto!

Pare un uomo veramente rinato.

Lettore, sii sincero, non è capitato qualche volta anche a te?

Un certo Giovanbattista Magnani, che faceva servizio alla corte di Gregorio XIII, un giorno si mise a giuocare ma la fortuna gli fu contraria in maniera straordinaria come mai, e perdette parecchie centinaia di scudi, ch'era somma grossa per quei tempi.

L'uomo, mezzo disperato, che pareva un pazzo, passava per Corte Savella, uno dei centri di Roma, quando Filippo, che veniva dalla parte opposta, l'incontrò.

II Santo non l'aveva mai conosciuto ma comprese che si trovava in una crisi gravissima, come diciamo noi. Senz'altro si fermò, lo prese per un braccio e gli disse:

- Come vi chiamate? Perché siete così sconvolto? Vi sentite male? Avete bisogno di qualche cosa?

- E voi chi siete?

- Io sono Filippo Neri il prete di S. Girolamo della Carità! Non mi conoscete?

- Sì, qualche volta ho sentito nominarvi, ma non vi ho mai avvicinato.

- Neppure io conoscevo voi, ma vi si vede nel volto uno stato grave: voi avete bisogno di qualche cosa! Intanto lo conduceva a S. Girolamo. Voi avete bisogno di confessarvi subito, bene.

L'uomo avrà pensato tra sé: che parlare è questo? Che c'entra la confessione con gli scudi perduti? Io ho bisogno di scudi adesso.

Ma tralasciamo il resto: egli era capitato in mano al fabbro che faceva diventare fanciulli i vecchi e, come tanti altri, non poté sfuggire.

Filippo indusse l'uomo a confessarsi, a vuotarsi di se stesso. Si rialzò lieto.

Il suo cuore si era allargato, il suo affanno era finito ed un'altra vita era cominciata.

Non si rese conto subito di questo prodigio, ma quando ci ritornò col pensiero comprese e disse: Filippo è un grande Santo.

Un certo Pietro Focile era un tipo strano: di fondo buono ma vivace, pronto agli scatti, alle decisioni rapide ma anche ai sinceri pentimenti.

Egli conobbe S. Filippo nella pratica dell'Oratoria e fu preso da ammirazione per lui e non cessava di tenergli gli occhi addosso, dall'altra parte, Filippo guardava lui in una maniera insistente, quasi con patimento.

Pietro, come poi depose nel processo, aveva la sensazione che il Santo gli leggesse i suoi peccati, e sentiva una grande vergogna, tanto più ch'era vestito da giovane mondano, licenzioso.

Dopo parecchio tempo anche egli si trovò nella fucina del fabbro che faceva i fanciulli dalle persone adulte. Filippo ebbe a rimproverarlo per certe sue disobbedienze, una volta, ma quell'uomo focoso montò in furia e disse: ma che non ci sono più confessori in Roma? non c'è altro confessore che lui? e così a passo rapido andò via. Ma non si trovò bene: non era soddisfatto e cadde in una grande malinconia.

Non osava tornare però e rimaneva in quella sua tristezza, ma Filippo che conosceva la pecorella sotto la pelle di uomo bizzarro, lo mandò a chiamare.

Pietro non aspettava altro: si senti allegro, corse, si gettò ai piedi del Santo e pianse.

Quando si fu un pò rasserenato: Padre non voglio più disobbedire e prometto d'osservare infallibilmente coi fatti tutto quello che mi dite.

La trappola santa.

Un uomo era immerso in un peccato grave a tale segno che le cadute erano continue, quasi giornaliere. Molti altri peccati meno gravi facevano corona a quel peccato più grave ed erano una corona di spine.

Il disgraziato aveva messo a prova e la pazienza e l'esperienza di molti confessori e non aveva fatto alcun progresso: finalmente capitò da Filippo.

Il Santo ascoltò la confessione con volto allegro, come se udisse delle belle notizie. Il Santo Sempre ascoltava con molta allegria le confessioni, e ciò dicono tutti i testimoni del processo, ma quella volta sarà stato addirittura festivo.

Il penitente sapeva già per esperienza delle confessioni precedenti che dopo la confessione gli sarebbe stata imposta una grave penitenza, come comportava l'uso.

Per dei peccati grossi, del genere di quelli in questione, la penitenza poteva essere di portare il cilizio, per esempio: di digiunare per un mese come si digiuna in Quaresima: di dormire su un tavolaccio: di andare a piedi scalzi ad un santuario lontano chilometri: di ascoltare la Messa quotidianamente per mesi: di non bere una foglietta di vino per mezzo anno.

Finita l'accusa, il povero uomo aspettava con un certo batticuore e si chiedeva che cosa avrebbe detto Filippo mi manderà scalzo?... mi farà digiunare per alcuni giorni? ecc.

Filippo mise flne a quell'intima ricerca e disse:

- La tua penitenza è questa: se ti accadesse di ricadere nel peccato, vieni subito e confessati.

- Solo questa penitenza, P. Filippo? disse trasecolato, quasi incredulo.

- Solo questa, ma esigo che tu la compia rigorosamente.

Si alzò lieto, baciò la mano, ringraziò e andò via pensando: me la sono cavata benissimo... Mi aspettavo almeno di portare il cilizio! Ma guarda che novità!... Si sa: chi ha peccato deve confessarsi e questo è un obbligo e non già una penitenza... ma lui è un santo e sa quello che fa... del resto poi io non avrò più bisogno di fare questa penitenza, perché non commetterò più quel peccato e quindi tutto è finito, ho fatto un proposito fermissimo.

Ma non passò molto tempo da quel proposito... fermissimo e ritornò a peccare come prima: al proposito successe lo sproposito abituale.

Quando la calma ritornò nel suo cuore, comprese il disagio di dover tornare, la sofferenza di fare quella penitenza che gli era parsa così lieve: si sentì male, tuttavia fece uno sforzo, e si presentò a Filippo.

Questa volta s'aspettava, non solo una di quelle penitenze grosse ma anche una grande lavata di capo: era stato troppo cattivo, dopo tanta indulgenza del Padre.

Anche questa seconda volta Filippo sorrideva, come l'altra volta, e impose la stessa penitenza: tornare a confessarsi quando avesse peccato.

La strana cura di confessioni e penitenze di quel genere durò parecchio.

Ogni volta però che peccava il poveretto avvertiva sempre più la pena di dover tornare, l'umiliazione pesante ed un certo disgusto di se stesso per la sua vita.

Per tutte queste ragioni, cominciò a resistere alla tentazione con una forza sempre maggiore: finalmente con la perseveranza si liberò da quel peccato.

La penitenza aveva funzionato; il peccatore così proclive al male, certo, dopo un notevole tempo, arrivò a tale grado di bontà che Filippo ebbe a dichiararlo un angelo. Questa astuzia di Filippo, di far riconfessare subito in luogo della penitenza abituale, fu una delle più intelligenti, rapide ed efficaci.

Il ridicolo è che il peccatore credeva di essere capitato nelle mani di un uomo semplice e di un confessore di manica larga, mentre era stato preso in un santo tranello, che nessun furbo avrebbe potuto trovare.

Quel peccatore indurito se fosse stato trattato al modo usuale, con le penitenze usuali, magari di farsi la disciplina per una settimana, dopo la prima ricaduta, avrebbe rimandata la confessione, come succede ordinariamente. Sarebbe ricaduto ancora con più facilità, una seconda, una terza, una quarta volta, e magari avrebbe detto a se stesso: una volta di più una di meno... e sarebbe andato innanzi nella sua pessima abitudine.

Intanto la sensibilità spirituale sarebbe diminuita e avrebbe sentito meno rimorso, il vizio si sarebbe approfondito e il disgraziato sarebbe andato di male in peggio.

Filippo rese impossibile tutto ciò, col suo tranello di finta indulgenza.

E poi anche quel tornare diventò penitenza.

La gioia anche per un condannato a morte.

Un condannato a morte si mostrava di una vigliaccheria straordinaria.

La morte, si sa, fa paura e molto e di più ancora ad un condannato che abbia dei grossi rospi sulla coscienza... Andare con dei rospi sulla coscienza all'altro mondo non è il più bello dei viaggi: ciò è vero.

Tuttavia, si può avere del coraggio, almeno un poco, anche di fronte alla morte.

Alla morte si può andare sereni quando non ci sono rospi sulla coscienza, quando si muore per una causa giusta, come per la patria: maggiormente poi quando si va alla morte per Dio, come i martiri.

Ma quelli che sono più crudeli con gli altri e che mostrano più coraggio nel fare il male, sono più vigliacchi nell'affrontare, essi, la morte.

Uno di costoro, dunque, doveva essere giustiziato, ma nell'aspettazione era diventato un energumeno.

I fratelli della Misericordia, un pia associazione del tempo che si preoccupava di assistere a ben morire, non sapevano più che fare per dare un po' di calma e per indurre il condannato a pregare e confessarsi.

Grida, bestemmie, minacce, gesti folli, erano la risposta del meschino ad ogni invito, ad ogni parola buona: tutti gli esperimenti fallirono.

Così stavano le cose quando, un messaggero, appunto della Compagnia della Misericordia, viene dal P. Filippo e gli dice:

- Padre Filippo, c'è un condannato che deve essere giustiziato ma non vuol saperne né di Dio, né di Sacramenti, né di sacerdoti: nessuno di noi è riuscito a smuoverlo, a rabbonirlo! E' una belva: anzi, pare che abbia quattordici diavoli in corpo.

- Avete provato a chiamare sacerdoti diversi dalla vostra Compagnia? Ce ne sono tanti a Roma.

- E come! Abbiamo chiamato sacerdoti di vari ordini religiosi, espertissimi del ministero, ma non hanno cavato un ragno dal buco.

- Ebbene verrò io, dice il Santo, dopo aver un poco pensato.

- Venga, ci fa proprio una grazia, benché, lo dico prima, ci sia poco da sperare.

I due si avviano e arrivano presto al luogo: pareva uno spettacolo.

Il condannato proseguiva la sua reazione, come un pazzo furioso: c'erano parecchie persone presenti, più o meno addolorate, ma tutte atterrite.

- Per favore, andate fuori, dice Filippo a costoro e poi si dirige, verso il condannato e, a qualche passo di distanza, intima:

- Non parlare più, taci, scellerato!

Nel dire ciò il Santo, con movimento inconsueto, non fa, diciamo, una delle sue, ma ne fa una ch'è nuova e non si ripeterà mai più.

Piomba addosso a quel furioso, lo prende per il collo, lo butta a terra e gli sta sopra con risolutezza e seguita a dire imperioso: taci, taci, non ti muovere!

Mentre le parole dicevano ciò, gli occhi, le linee del volto dicevano peggio.

Si fece un silenzio assoluto.

Il condannato, in quella pausa dal chiasso esteriore, che egli stesso faceva e dalla presenza, forse, eccitatrice, degli altri, è portato alla coscienza di se stesso e rimane stupito, stordito, come in attesa di una spiegazione.

Filippo cominciò a parlare: le sue parole cadevano come un getto di acqua continuata sopra grande fiamma: la fiamma di disperazione dell'uomo va diminuendo, poi si estingue lentamente.

Le parole intanto continuavano a scendere ancora, ma come olio che lenisce, confortatrici.

Quanto tempo durò la scena? Non sappiamo.

L'uomo si calmò completamente, cominciò a riflettere, poi si rasserenò, si confessò.

Nel nuovo stato di coscienza, sentendo, forse, ancora una volta il bisogno di purificare la sua anima per affrontare la morte, si confessò di nuovo.

C'era stato, certo, in tutta questa vicenda, una forza, divina, la grazia, ma la grazia svolge la sua opera nelle leggi della vita, e Filippo, col suo gesto audace, fece il silenzio, e la tranquillità esterna fece il silenzio e la tranquillità interna; la grazia operò, venne la salvezza.

Filippo spara uno dei suoi più celebri mortaretti.

I mortaretti sono quei robusti cartocci, che i pirotecnici o costruttori di fuochi d'artificio, riempiono di polvere pirica, stringono ben bene con fili robusti e poi fanno scoppiare, accendendo una miccia: nell'esplosione, faville vengono fuori, ed un gran botto si produce.

Filippo molto spesso usava un procedimento simile ed annunziava una grande verità con un motto di spirito, con un gesto comico, con una trovata spiritosa.

Era un uomo molto riflessivo, un meditativo: prima metteva la polvere nelle sue meditazioni e poi, a tempo opportuno, la faceva scoppiare come un mortaretto. Pareva un improvvisatore, ma era un uomo che aveva preparato il mortaretto.

Egli non faceva pertanto come i filosofi che, quando hanno qualche cosa da dire, tirano a lungo, ragionano ragionano fino alla noia.

Una volta, pertanto, egli ragionava con uno dei suoi, il quale era abbastanza orgoglioso, non sapeva sopportare le mortificazioni, polemizzava, si atteggiava a saputo e discorreva di ogni cosa e tuttavia pretendeva di aspirare alla santità.

Ad un certo punto, Filippo, forse stanco delle chiacchiere del suo interlocutore, si irrigidi nella sua persona e, persuaso come chi sa di avere causa vinta, porta tre dita distese alla fronte, ve le batte e dice reciso, nervoso:

- La santità dell'uomo sta in tre dita di spazio: sappilo!

Come, Padre Filippo? Che volete dire?

- Dico che la santità sta in mortificare la « razionale », la quale si trova appunto qui nello spazio di tre dita della fronte...

- E che cos'è questa razionale?

- La razionale è la ragione che cerca di farsi valere, anche a torto: di mettersi in mostra: di vincere: di non far conto dell'umiltà: la razionale è la ragione che non ragiona bene e o zoppica o addirittura fa capitomboli come un ubriaco.

Da quella prima volta, la grande verità che bisogna mortificare la razionale, e cioè raddrizzare la ragione zoppicante, divenne uno slogan di Filippo e della sua scuola.

Egli portava fino alle ultime conseguenze questa sentenza e diceva « Che uno il quale non è capace di sopportare la perdita dell'onore, non può progredire in santità».

Il lettore comprenderà che questa scena non si trova così messa nei processi od in altri scritti, neppure una volta, però è riconosciuta da come avvenne quasi tutte le volte.

Il fatto è che il mortaretto, pur consegnato nei libri, seguita a sparare, non appena il libro si apre, e scoppierà nei secoli dei secoli.

Fonte: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA (GIUSEPPE DE LIBERO) - Libro scaricato dal sito www.preghiereagesuemaria.it