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Martedi, 7 maggio 2024 - Misteri dolorosi - Santa Flavia ( Letture di oggi )

Don Nikola Vucic:La parabola della Pecorella smarrita sembra rasserenante, ma in realtà nasconde un interrogativo inquietante: perché "più gioia" per la pecorella smarrita che per le altre novantanove? Siamo tutti amati da Dio alla stessa maniera? Smarrendosi la pecorella ha fatto tremare il cuore del Pastore, il cuore di Dio. Il Pastore ha avuto paura di perderla per sempre. Questa paura ha fatto sbocciare la speranza nel Suo cuore, e la speranza compiuta ha provocato una grande gioia. Non c'è un vero rapporto d'amore senza dolore e senza speranza. Io metterei in guardia, chi ascolta questa parabola, dal prendere subito il posto di chi è rimasto all'ovile. Come i farisei che si sentono apposto, che non hanno bisogno di conversione. Ma chi di noi non ha bisogno di conversione? La pecorella più smarrita è proprio quella che rimane all'ovile, che si sente al sicuro e pensa di non avere bisogno del Pastore.
Gesu

La denigrazione nel teatro greco e romano.


9. Che cosa abbiano pensato del fatto i vecchi Romani ce lo attesta Cicerone nell'opera Sullo Stato in cui Scipione, uno dei dialoganti, dice: Le commedie non avrebbero potuto presentare nei teatri la propria infamia se non l'avesse tollerato il modo di vivere. I Greci antichi si attennero a una certa coerenza con la cattiva reputazione che ebbero, giacché da loro fu concesso per legge che la commedia manifestasse espressamente il tema e l'individuo cui lo applicava. Perciò, come dice Scipione Africano in quell'opera, chi non ha raggiunto, anzi chi non ha insultato, chi ha risparmiato? E vada pure se ha insultato cittadini disonesti, sediziosi nell'amministrazione, un Cleone, un Cleofonte, un Iperbolo. Ammettiamolo, sebbene cittadini di quella risma è meglio che siano bollati dal censore che da un poeta. Ma che Pericle, dopo essere stato a capo della città in pace e in guerra con grande autorevolezza per molti anni, fosse oltraggiato con composizioni poetiche e che queste poi fossero eseguite in teatro fu meno conveniente che se il nostro Plauto o Nevio avessero detto male di Publio e Gneo Scipione o Cecilio di Marco Catone. E poco dopo: Invece le nostre dodici tavole, nello stabilire le pochissime pene capitali, fra di esse hanno ritenuto di dover porre anche questa: "Per chi satireggia o compone un carme che porta disonore e danno all'altro". Giustissimo. Dobbiamo sottoporre la nostra condotta ai giudizi dei magistrati e agli accertamenti della legge e non al capriccio dei poeti e non ascoltare un'accusa se non in base a una legge per cui si possa rispondere e difenderci in giudizio 16. Ho pensato di citare testualmente queste parole dal quarto libro Sullo Stato di Cicerone con qualche omissione o leggera variante allo scopo di una più facile intelligenza. Il testo è molto pertinente all'argomento che mi accingo a trattare se ne sarò capace. Aggiunge altre parole e tira la conclusione di questo passo per dimostrare che ai vecchi Romani dispiaceva che in teatro si lodasse o insultasse un individuo, mentre era vivo. Ma come ho detto, i Greci, sia pur con minor rispetto e tuttavia con maggior coerenza, stabilirono che era lecito. Essi pensavano che agli dèi fossero gradite nelle rappresentazioni teatrali le azioni disonorevoli non solo degli uomini ma anche degli stessi dèi, tanto se erano inventate dai poeti che se le loro reali azioni scandalose erano ricordate e rappresentate in teatro e sembravano degne ai loro adoratori soltanto, speriamo, di riso e non anche di imitazione. Sembrò troppo altezzoso risparmiare la onorabilità dei primi della città e dei cittadini, quando la divinità non voleva che si risparmiasse la propria.