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«Ti rendo lode, o Padre Signore del cielo e della terra, perché hai nascoste queste cose ai dotti e ai sapienti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così è piaciuto a Te!» Mt 11-25-26

Vera, incarnata, credibile


L'esperienza umana e cristiana di Clelia Barbieri conserva a distanza di oltre 100 anni una freschezza straordinaria. Questa ragazza persicetana, vissuta fra il 1847 e il 1870, è vera, incarnata, credibile. Parla come noi, lotta con noi, ci accompagna nel cammino.

Clelia è una santa giovane, non conformista, abba­stanza scomoda per chi la guardi non soltanto come figura da ammirare e da pregare, ma anche come modello da imitare e da vivere.

La sua vicenda appartiene alla cosidetta storia minore, al Vangelo della vita nascosta, fatta non tanto di battaglie, di trattati, di manifestazioni di massa, quanto di episodi feriali, a dimensione umana, localiz­zabili nel piccolo mondo di provincia. Tutte cose che apparentemente non fanno notizia; ma prese insieme portano in sé una novità inesauribile.

La fatica di vivere, la fame di giustizia, la fede dei miti e puri di cuore, lo sforzo di crescere insieme, la lieta disponibilità al servizio, l'entusiasmo che animò le giovani generazioni, il ruolo guida di un gruppo di ragazze delle Budrie, in un tempo in cui la media della vita non superava i 33 anni: ecco le linee della nostra storia.

La santa delle Budrie fa parte della categoria più depressa della sua epoca, i braccianti; e cioè quella larga piattaforma di lavoratori che migrano di villag­gio in villaggio in cerca di un minimo spazio vitale. È gente che non sa leggere né scrivere, non vota, non conta; eppure partecipa intensamente alla realtà di paese e risente nella carne e nell'anima tutto quello che si compie ai vertici della società.

Gusmini, il primo biografo


Al di fuori della piccola cerchia di amici - i com­paesani, le Minime dell'Addolorata, il parroco delle Budrie - pochi, fino all'inizio del secolo XX, conob­bero Clelia Barbieri.

Il suo scopritore fu il card. Giorgio Gusmini, arci­vescovo di Bologna dal 1914 al 1921. Egli capì che in questa ragazza, passata così in fretta sulla scena del mondo, c'era qualcosa di autenticamente evangelico; e divenne il suo primo biografo. Lo coadiuvò suor Imelde Becattini, che intorno al 1908 aveva steso una memoria in un quadernetto di poche pagine.

Suor Imelde sapeva decifrare la calligrafia quasi illeggibile dell'uomo che papa Giovanni XXIII, suo conterraneo, definì «ornato di genialità sorridente, a volte ingenua e pur sempre posta al servizio di nobili cose, fisionomia schietta di figlio della Val Seriana». Grazie a lui la figura di Clelia Barbieri fu tirata fuori da 50 anni di silenzio e sviluppata come un nega­tivo fotografico nella camera oscura della memoria. Sul finire del 1916, quasi ogni settimana, il cardi­nale andava alle Budrie. Anche in giornate di pioggia e di neve si tratteneva a lungo con i testimoni viventi: voleva sapere tutto, rovistare tutto... Sedeva con sem­plicità sul telaio per la filatura, nella loggia della casa madre, e annotava parole e fatti.

Uscirono così nel 1917 gli «Appunti storici» su Clelia Barbieri. Un merito incontestabile. Il tribunale che fa i santi aveva in mano il libro del Gusmini, quando dichiarò che Clelia era degna di tener compa­gnia ad altre sante bolognesi, come Imelde Lamber­tini, Caterîna de' Vigri, Elena Duglioli.

Ma c'erano ancora tante cose sepolte negli archivi alle Budrie, a S. Giovanni, a Bologna. A questa fonte ancora intatta attinse intorno al 1970 l'autore del pre­sente racconto, nel corso di un'attenta e affettuosa indagine sui documenti, col sostegno dei 5 volumi manoscritti del processo informativo diocesano e apo­stolico.
Nonno Sante canapino

Accanto a Clelia emergono altre figure: il cana­pino Sante Barbieri, i parroci don Giuseppe Setanassi e don Gaetano Guidi, il maestro Geremia Neri, il medico Zeffirino Nanetti, l'erede spirituale Orsola Donati, la cuciniera Anna Forni, il balbuziente Cele­stino Cocchi, l'orfana Maria Ferrari, il vecchio dalla barba bianca...

Si ricostruisce così un quadro della periferia persi­cetana del 1800, nel periodo travagliato e complesso fra l'ascesa al pontificato di Pio IX e la breccia di Porta Pia. Sono anni di rapida e tumultuosa evolu­zione: guerre, sussulti sociali, trapassi storici, con tutte le componenti economiche, politiche, culturali che determinarono il futuro del nostro paese.

Clelia è lì dentro, a prima vista quasi impercetti­bile; poi cresce in maniera sorprendente e assume proporzioni di grande rilievo.

La nostra protagonista appartiene al proletariato rurale.

Esiste nei cartoni dell'archivio parrocchiale di S. Giovanni in Persiceto un elenco del 1853 di tutte le famiglie povere del Comune, per la distribuzione della farina gialla durante le feste natalizie. Alla fami­glia di Sante Barbieri e Rosa Zanasi, nonni di Clelia, toccarono 10 libbre: due a testa. Tenendo conto che la libbra equivaleva a circa 322 grammi, sono tre chili e duecento venti: una discreta polenta attaccata all'al­bero di Natale!

Più avanti, nel 1858, nell'archivio delle Budrie, c'è una lista di offerenti per il nuovo campanile con tutte le categorie del paese: i possidenti, i partecipanti, i contadini, gli artigiani, i braccianti.

Nonno Sante, capo-famiglia dei Barbieri e unico uomo della casa dopo la morte del figlio Giuseppe, fa parte dei braccianti di II classe, e non è in grado di offrire nemmeno pochi baiocchi, mentre Zeffirino Nanetti, zio materno di Clelia, offre la cospicua somma di 30 scudi romani.

Questo dato non farebbe notizia, perché erano 129 le famiglie povere delle Budrie; ma Clelia porta nella sua nascita un segno di contraddizione: il padre è nato povero, la mamma invece apparteneva alla prima famiglia del paese, che ha case, poderi, e regi­stra tra i propri membri un medico, il dott. Zeffirino. Avere una laurea a quei tempi, costituiva un titolo favoloso, tanto che medici e avvocati erano denomi­nati eccellentissimi.

Il contrastato amore di papà e mamma

Nella famiglia del nonno materno, l'anziano signor Pietro Nanetti, c'erano tre maschi - Zeffirino, Zenobio, Zaccaria (Zosimo era morto a 26 anni nel 1831) e due femmine, Giuseppina e Giacinta. Proba­bilmente nei piani familiari Giacinta doveva restare zitella, accanto alla vecchia madre; ma lei si ribella al ruolo di nubile benestante e, intorno al 1840, s'inna­mora del servo del dott. Zeffirino, Giuseppe, nato a Manzolino il 10 ottobre 1822, sesto ed ultimo dei figli di Sante Barbieri.

Tra il giovane piccolo e mingherlino e la signorina Giacinta, c'è un'intesa a distanza di età e di condi­zione sociale. È un amore puro e profondo che fa sen­sazione nell'ambiente quieto e stagnante delle Budrie: Giuseppe ha sette anni meno di Giacinta, ed è povero in canna!

Avviene che il servo è licenziato e la ragazza tenuta sotto chiave; però gli anni dal 1842 al 1846 non riescono a spegnere il fuoco e l'idillio si conclude il 27 aprile 1846, di lunedì, con il matrimonio celebrato dal parroco don Giuseppe Setanassi. Il consenso, invece, era stato preso il giorno di Pasqua e siglato da entrambi i contraenti con la croce.

Le donne d'oggi possono guardare a Clelia con viva simpatia, specie alla Clelia matura che realizza la sua opera di promozione umana e culturale a favore delle ragazze del paese; simpatia non soltanto reli­giosa ma anche sociale, perché a quel tempo le donne erano senza voce attiva nell'edificazione della vita pubblica e senza il prestigio della cultura. Ricama­vano, cucivano, filavano, ma non tenevano in mano né la penna né la scheda elettorale.

Il matrimonio contro corrente crea una rottura fra i Nanetti e i Barbieri. Giacinta se ne va a stare in casa di nonno Sante e di nonna Rosa. Dal nuovo nucleo familiare nasce Clelia, il 13 febbraio 1847; tre anni dopo Ernestina, che morirà a 32 anni, dopo essersi sposata con un muratore del Martignone, Alfonso Maccaferri.

Chi facesse il confronto tra i figli di Giacinta e quelli della sorella Giuseppina, sposata in Vecchi, tro­verebbe un divario vistoso. Luigi, Carlo, Massimi­liano, Anna, Virginia, Rachele, Carlotta vivono nella agiatezza; Clelia ed Ernestina conoscono una precoce fatica. Nondimeno Giacinta ci teneva che le sue figlie fossero eleganti; le pettinava con la riga nel mezzo della fronte e le vestiva sempre di bianco.

Il colera del 1855


Per un quinquennio, nella casa del pigionante Sante Barbieri, c'è una grande pace. Sono anni felici, da poveretti. Una prima ombra passa su quella lim­pida gioia il 29 giugno 1853. Muore a 70 anni nonna Rosa. Poi, nel 1855, scoppia il colera.

Su questa calamità si sono scritti fiumi di inchio­stro. A Bologna e provincia, su un totale di 567.795 abitanti, si ebbero 19.916 casi di colera, con 12.242 morti. Nel persicetano gli affetti dal cholera morbus furono 687, con 427 morti; alle Budrie 79 i colpiti e 47 (o 46, secondo le fonti) i deceduti per il morbo asia­tico, come lo definisce il libro dei morti.

Il papà di Clelia è uno dei primi a subire il conta­gio: muore di una forma fulminante. Forse si è alzato come al solito per andare al lavoro, e alle 2 del pome­riggio si è spento fra dolori atroci. Era l'11 luglio 1855.

Alcuni aspetti esterni possono rendere l'atmosfera di quei giorni.

I morti erano portati in fretta al cimitero, quasi clandestinamente, e sepolti in una buca profonda con due quartiroli di calce sulla bara. In mezzo ai campi di notte bruciavano i pagliericci. Ci fu una protesta scritta da parte degli ospiti del ricovero di S. Gio­vanni, perché i pagliericci che ardevano nella notte creavano una cupa visione che li sgomentava. Non si suonavano le campane a morto per non intimorire la gente.

Si distrussero le melonaie, ritenute responsabili del sintomo dissenterico con cui si manifestava il colera. Si verificò un esodo dai grossi centri, come noi lo ricordiamo negli anni dell'ultima guerra mondiale: andavano a stare in luoghi remoti per sfuggire al morbo. Verso la fine del 1855, al termine del colera, ci fu una ripresa festaiola, perché il pubblico della città e del contado voleva cancellare il ricordo del calamitoso evento.

Nella povera stamberga dei Barbieri è rimasto un uomo di 75 anni, nonno Sante, che lavorerà fino agli 80, ora del suo congedo; mamma Giacinta, ormai quarantenne; Clelia di 8 anni, Ernestina di 5.

Il maestro del villaggio


Anche il maestro delle Budrie, Geremia Neri, col­pito dai primi sintomi del male, il 20 ottobre - forse nella stessa aula scolastica adiacente l'abitazione - si era messo a letto con quel senso di indicibile oppres­sione che i medici chiamavano «cingolo colerico».

Con la forte fibra contadina lottò per 13 giorni, finché il dott. Zeffirino Nanetti lo dichiarò fuori peri­colo. Non fa meraviglia che al suo ritorno a scuola, col volto segnato e con la bella voce spenta, sulla fine di novembre, gli alunni lo guardassero come un fanta­sma. Tutto il paese si congratulò sinceramente con lui, con la moglie Angela Biondi e con le cinque figlie.

Il maestro pubblico di San Bartolo aveva 60 anni suonati e 26 di onorata carriera. Tutti lo considera­vano ormai un'istituzione: consultato come un ora­colo da poveri e benestanti, collaboratore dei parroci, segretario di tutte le opere e confraternite, capo degli operai della dottrina cristiana, era come l'ago della bilancia nella comunità delle Budrie.

La casa del maestro


Il regolamento delle scuole comunitative, quando la casa adibita ad uso scolastico si affacciava alla pub­blica via, faceva obbligo ai maestri di esporre un'inse­gna che indicasse l'esistenza della scuola. Di qui il titolo divulgato di «casa del maestro» dato alla resi­denza di Geremia Neri. È presumibile ancora che sulla porta di quella bicocca sapienzale campeggiasse lo stemma dell'arcivescovo Oppizzoni, dalla scritta longanime «omnia cum tempore».

In tutto il comune si contavano cinque scuole ele­mentari maschili; e due scuole superiori: una di lati­nità e l'altra di umanità e retorica, secondo l'indirizzo un po' aulico in vigore prima dell'unità d'Italia. Alla scuola elementare delle Budrie, che apriva i battenti il 5 ottobre, convenivano ragazzi da S. Maria in Strada,

da Tivoli, da Castagnolo, da S. Giacomo del Marti­gnone; si raccoglieva così una piccola popolazione scolastica dai 50 ai 70 alunni. Non era raro, dati i tempi, che nella classe dei principianti sedessero alunni di 10 anni e più. Per l'ambito femminile l'anal­fabetismo era la norma. Il vuoto d'iniziativa pubblica fu in parte colmato dalle scuole della Provvidenza, trapiantate nel persicetano dal can. Rinaldo Pance­rasi, dopo le positive esperienze realizzate altrove; e dalle scuole notturne o domenicali promosse da mons. Giuseppe Bedetti fin dal 1838 per la città di Bologna, a favore degli strati più poveri e depressi del popolo, poi diffuse in tutta la diocesi.

Se, nell'insegnamento superiore a S. Giovanni in Persiceto, emergeva fra tutti il lughese Gianfrancesco Rambelli, ragguardevole figura di erudito e di poli­grafo, alla base della piramide scolastica spiccava Geremia Neri, luminare della povera gente.

 
A metà strada

La prova ha accentuato la precocità di Clelia. La sua età psicologica è assai superiore a quella anagra­fica. L'esperienza, profonda e marcata dal dolore, ha determinato sia fisicamente che interiormente una straordinaria maturità.

Questo carattere si manifesta la prima volta, in maniera netta, nella prima Comunione, il 24 giugno 1858, un anno dopo la visita di Pio IX a S. Giovanni in Persiceto.

L'impronta eucaristica


Il 1858 risultò memorabile per la parrocchia delle Budrie. Vi fu la missione per l'acquisto del giubileo; e, il 17 giugno, la visita pastorale del card. Michele Viale Prelà con la Cresima, a cui fu ammessa anche Ernestina. Poi, una settimana dopo, il primo ban­chetto eucaristico che doveva segnare di un'impronta incancellabile l'anima della nostra protagonista.

Clelia ha 11 anni. È a metà del cammino. La comunità intera respira la grazia di quel giorno e di quell'anno santo, ma Gesù-pane di vita eterna ha per l'orfana di Giuseppe Barbieri un dono e una luce par­ticolare.

Fu toccata nell'intimo, tanto che all'uscire di chiesa con le sue amiche dal velo bianco (e fra queste l'inseparabile Violante Garagnani) ebbe una reazione imprevedibile. Passò dalla gioia grande a uno scoppio di pianto, corse a casa e si buttò ai piedi dell'imma­gine di Maria che era sull'altarolo di cucina.

Cosa avvenne in quel momento? Suor Imelde lo dice con tutta semplicità: Clelia visse la prima espe­rienza mistica.

Purificata da una contrizione intensa - ma che peccati poteva piangere? - e illuminata da un raggio interiore, ebbe l'intuizione globale del suo futuro nella duplice linea contemplativa e attiva. Vide avanti, limpidamente.

Seguono anni di rapida crescita. Questa piccola anima si allunga e si espande, acquistando quella fisionomia spirituale e apostolica che oggi è il segno della sua gloria.

Complice, per così dire, di questa maturazione, oltre il lavoro segreto dello Spirito Santo, è una guida sacerdotale - il parroco don Gaetano Guidi, succe­duto all'ardente Setanassi, spentosi un anno dopo il colera - e una fraternità giovane, inserita nella comunità di paese come lievito nella pasta: Clelia, Teodora Baraldi, Violante Garagnani, Adelaide Coc­chetti.

Il curatino delle Budrie


Un ruolo di prim'ordine in questa invenzione di santità spetta appunto a don Gaetano Guidi, tipo sobrio e discreto, quasi agli antipodi dell'impeto romagnolo del suo predecessore. Un efficace biglietto da visita è il tema del suo esame di concorso per la cura d'anime delle Budrie, che lo vide designato con tutte fave bianche: «Questa generazione malvagia e adultera cerca un segno e non le sarà dato altro segno che quello di Giona profeta» (Mt 16,4).

Il segno di Giona, simbolo della passione e risurre­zione di Cristo, è la nota distintiva del pastore che contribui in maniera decisiva a scoprire il disegno di Dio e a plasmare la prima Minima dell'Addolorata.

Umile, silenzioso, antidivo, don Guidi veniva da una grande scuola. Suo maestro e ispiratore era stato il parroco di S. Martino di Bologna, don Antonio Costa, una delle figure eminenti dell'epoca: biblista, catechista, fondatore della S. Vincenzo maschile e femminile, assistente del circolo San Petronio prima espressione della società giovanile dell'A.C. pro­mossa da Giovanni Acquaderni. Da lui attinse a piene mani il consiglio, l'esempio, le idee; l'incontro poi con Clelia lo rivelò a se stesso e agli altri, tanto che, specie negli anni 1866-1868, vediamo un don Guidi inedito: fiero, combattivo, tenace, con una fiamma insospet­tata che denuncia il pastore di genuina tempra e l'uomo di Dio.

Gli operai della dottrina cristiana


Con questa denominazione venivano registrati i catechisti: «operai» nel senso evangelico, «braccianti e artigiani» della educazione alla fede. La voce risale almeno al '500 e indica un preciso servizio assunto con carattere di stabilità. Oggi si direbbe «lettori», ter­mine che esprime il ministero di chi si impegna a tempo pieno nell'annuncio del Vangelo.

Una lapide del '700, alla Certosa di Bologna, segnala un certo Giorgio Pezzoli come «operaio della dottrina cristiana», quasi a fissare nel marmo una scelta di vita e una credenziale per il giudizio di Dio. Pure Clelia fu operaia della dottrina cristiana, e lo fu a tempo pieno, con quello che diceva e con quello che era.

Intorno a lei, a poco a poco, la catechesi delle Budrie fece un salto di qualità; diventò scuola di vita e vivaio di vocazioni. Molte di quelle ragazze che a 13-14 anni si erano inserite nella squadra di catechi­smo, prima come sottomaestre, poi come titolari della classe dei principianti o dei comunicandi, si votarono per sempre a Cristo nel servizio di preghiera e carità.

Occorrerebbe una riflessione molto attenta su questo movimento catechistico, perché è qualificante per la fioritura di doni e di carismi che segnano una straordinaria primavera nella comunità ecclesiale.

Quando Clelia fu cooptata tra le sottomaestre di catechismo, la misero in fondo all'elenco, quasi ultima ruota del carro, perché scarsamente alfabetiz­zata. Poi emerse dal gruppo e rivelò una insospettata capacità di comunicare anche per iscritto. Gli stessi anziani si facevano scolari di questa giovane maestra afferrata dallo Spirito. Ne rimanevano commossi e incantati.

Arrivò a familiarizzarsi con i libri. Pochi e scelti. Una biblioteca da mettere nella madia insieme con il pane. La tradizione accenna qualche titolo: La pratica di amar Gesù Cristo di S. Alfonso, la Filotea del Riva. Si conservano ancor oggi a Le Budrie. Un testo soprattutto esercitò su di lei un influsso decisivo: la «Dottrina cristiana elementare», promulgata dal card. Viale Prelà nel 1860. Questo opuscolo tascabile, memorizzato, insegnato, testimoniato, fu per lei il sil­labario, il manuale ascetico, il dizionario.

C'era anche un piccolo canale di periodici e di opuscoli che alimentava a ritmo costante le bibliote­che parrocchiali. A questa fonte di aggiornamento dovettero attingere Clelia e le compagne.

Così ai piedi degli alberi, nella sosta meridiana; e lungo gli argini del Samoggia, la sera, le quattro ami­che leggono, conversano e danno vigore ai loro sogni adolescenti. Nasce l'idea di un nucleo di vita contem­plativa e apostolica, e di un servizio di carità che sca­turisce dall'Eucaristia consumata all'altare della comunità di paese, frutto non tanto di una scuola di spiritualità o di una tradizione monacale, ma del germe che il divino seminatore nasconde di buon mat­tino nei solchi della buona terra, bagnati di sudore e di fatica.

Bellezza intensa e radiosa


Nel volto di Clelia splende quell'idea di bellezza femminile, che è tipica della scuola pittorica bolo­gnese da Vitale, a Guido Reni, a Ludovico Carracci, a Giuseppe M. Crespi. Una bellezza intensa e radiosa.

Non c'è da stupirsi che qualche giovane del paese, magari la domenica dopo la Messa, abbia alzato gli occhi su di lei. «Giunta all'età di 17 anni - dice suor Imelde - vi furono giovani che avendo una grande benevolenza e rispetto, aspirarono di congiungersi con lei in matrimonio». Ebbe alcune proposte. Massi­miliano Vecchi, suo cugino? Antonio Mezzetti, figlio del falegname? Il benestante Francesco Zambonelli?

Difficile dirlo con certezza. Si sa che in questi casi la ragazza aveva la battuta pronta: «Io non mi sposo. Andate da mia sorella...». La frase fece il giro del paese, tanto che se ne parlò alla bottega delle Caselle, dove Clelia andava a fare la spesa.

Ma a qualcuno che di fronte al no risoluto deve aver chiesto di più, Clelia diede la motivazione vera. Lo riferisce Enrico Marchesini: «So che fu chiesta da un giovane del posto, ed essa rifiutò non per motivi umani, ma unicamente per essere tutta del Signore».

 
La grande prova

II 1866 è un'anno cruciale. Da 7 anni è tramontato lo stato pontificio; il nuovo stato unitario italiano cerca il suo assetto con una gestazione travagliata e difficile, non priva di pagine oscure e penose.

Ha detto papa Giovanni: «La storia tutto vela e tutto svela». A distanza di un secolo si constata che il tramonto del potere temporale è stato un bene; e lo svincolo da certe responsabilità terrenistiche ha reso l'azione pastorale della Chiesa più sciolta, aperta, uni­versale; ma nel 1859 e negli anni che seguirono ci fu un difficile taglio del cordone ombelicale fra i due poteri.

Le leggi Crispi e Siccardi


I massimi nodi vennero al pettine nel 1866. È l'anno della III° guerra d'indipendenza, l'anno della legge Crispi detta dei sospetti, l'anno della estensione a tutto il regno delle leggi Siccardi per la soppressione degli Ordini e Congregazioni religiose.

A S. Giovanni in Persiceto sono soppressi i france­scani; nel loro convento prende alloggio la guardia nazionale e la loro chiesa è ridotta a magazzino. Nel territorio, tra maggio e giugno, passano divisioni in assetto di guerra che vanno al fronte. E, intanto, scatta la legge Crispi, che autorizza i prefetti a met­tere agli arresti senza processo le persone ritenute sospette o comunque contrarie al nuovo corso: una legge d'emergenza, che l'on. Ricciardi in parlamento non esitò a definire peggiore delle leggi borboniche.

La polizia entrava nelle case, perquisiva, arrestava al mattino presto o di notte i personaggi ritenuti sospetti su basi indiziarie o presunte. Fra i colpiti dalla legge Crispi ci furono una cinquantina di sacerdoti bolognesi. Li allontanavano dal gregge e li spedivano a Savona, Alessandria, Cuneo, perché la loro pre­senza era ritenuta negativa per lo spirito della patria in armi. Fu arrestato fra gli altri il parroco di S. Mar­tino, don Antonio Costa; e, 27° nella lista, don Gae­tano Guidi, che fu trattenuto in carcere dal 22 giugno al 16 luglio.

L'allontanamento dei pastori fu uno dei segni più clamorosi dello stato di tensione fra la Chiesa e le autorità dello Stato; un acuto malessere si diffuse dovunque, tanto che alcuni sindaci, come quelli di Budrio e di S. Giorgio di Piano, fecero presente al prefetto l'allarme e la costernazione del popolo.

A S. Giovanni, nell'estate del 1866, la Collegiata fu occupata per un certo periodo ad uso militare. Cosa inaudita per un paese che appena ventotto anni prima Gregorio XVI aveva insignito del titolo di città.

La notte oscura

Non riferiremmo questo momento di crisi storica, se non vi fosse una diretta connessione con la soffe­renza intima di Clelia. È il tempo delle ansie e desola­zioni di spirito, da cui si riprende per visibile inter­vento di Dio. Queste prove diventano una tappa essenziale della sua assimilazione al Cristo crocifisso e risorto.

Leggendo la «Notte oscura» di S. Giovanni della Croce, si nota quasi una coincidenza letterale fra que­sto faticoso itinerario spirituale e la vicenda della ragazza delle Budrie. Il profondo travaglio di Clelia Barbieri deve interpretarsi come il riverbero sulla sua anima sensibilissima e sulla sua stessa resistenza fisica del dramma del popolo e dei suoi pastori. Figlia della Chiesa bolognese riceve in pieno petto questi colpi che danno un quadro di eccezionale sofferenza comu­nitaria.

Quando don Guidi tornò al paese, fu una festa. Campane a distesa e clamorosa dimostrazione popo­lare. Il curatino, così lo chiamavano, scese di car­rozza; e, indirizzandosi alla sua gente, disse in dia­letto: «Adess a son un galantom».

Queste parole, riferite da testi oculari, pur nel riserbo abituale di don Guidi, vibrano di dignitosa fie­rezza e rivelano dolorosi retroscena.

All'inizio del 1867, Clelia ha improvvise tachicar­die e sbocchi di sangue di chiara provenienza tbc: sono sintomi di un morbo che la minava fin dalla prima infanzia ed assume ora una forma galoppante. Nel corso di questa malattia, Orsola le toglie di dosso la catenella di ferro a maglie larghe e sottili, e il rita­glio di cuoio a forma di cuore con quattordici punte aguzze, che in certi tempi usava con l'obbedienza del confessore: un'ascesi rimasta sconosciuta agli intimi.

Questi oggetti erano puri strumenti di penitenza, oppure nel loro rude simbolismo esprimevano una più precisa intenzione? Il cuore a punte potrebbe colle­garsi con l'esperienza di S. Leonardo da Porto Maurizio, un santo molto popolare nel contado bolognese, il quale nei suoi «Proponimenti» scriveva: «Porterò ogni giorno e anche la notte una croce sul petto con sette punte... per avere un memoriale continuo, vicino al cuore, del Cuore addolorato della Santa Ver­gine Maria».

Dopo mesi di alternative, la malata rapidamente declina. Riceve il viatico; suonano l'agonia... Ma poi si ridesta e volgendosi alla mamma dice: «Perché piangete? State tranquilla. Questa volta il Signore non mi prende. Vuole qualche altra cosa da me».

Inchiesta Cornero

Rapidamente ristabilita Clelia cambia chiave e procede libera e serena, attraverso dure difficoltà, come una freccia nelle mani del guerriero. Deve attuare quel «qualcosa» che Dio vuole da lei e che si è delineato chiaramente al termine della grande prova. Ottiene un'adesione preziosa da una ragazza che abita dall'altra parte del Samoggia verso S. Maria in Strada, Orsola Donati, che sarà erede del suo progetto e del suo spirito. Don Guidi dà il benestare. Viene offerto un piede a terra per la nascente fondazione nella sede della scuola, rimasta libera per le dimissioni dell'an­ziano Geremia Neri.

Quando ormai il disegno sta per calarsi nella realtà e il nucleo giovanile - formato da Clelia, Orsola, Teodora, Violante - è sul punto di trasferirsi in quella che anche oggi è chiamata la casa del maestro, si scatena una reazione montante. Chiacchiere, insi­nuazioni, aperte opposizioni. I soliti zelanti tacciarono le ragazze di esaltate e vagabonde, e parole pesanti circolarono sul conto dell'uomo di Dio che aveva avallato l'iniziativa.

Qualcuno passò parola a Giuseppe Morisi, asse­sore anziano facente funzione di sindaco, uomo ser­vile, del quale lo storico di S. Giovanni in Persiceto, Giovanni Forni, dà un giudizio piuttosto severo.

Avviene che il Ritiro delle Budrie, progettato con estrema semplicità e linearità, un'opera di ispirazione evangelica al servizio delle famiglie più povere del paese, è preso di mira come un tentativo di ristabilire le Congregazioni religiose che si volevano soppri­mere.

In base al reclamo del Morisi, il prefetto Cornero, a norma dell'art. 7 delle leggi di soppressione, ordina un'inchiesta che è contenuta in un consistente fasci­colo dell'archivio di Stato, con lettere del questore Bolis, del sindaco Morisi, del consigliere Carta Mameli e, a tergo di ogni lettera, le diligenti annota­zioni del prefetto stesso.

Don Guidi difensore dei poveri


Nell'aprile del 1868 l'affare, dopo 6 mesi circa, si sgonfia e vien dato il nulla-osta al sorgere della prima fondazione di Clelia e delle sue sorelle, allora deno­minate figlie di Maria o dell'Immacolata. Don Guidi torna a casa con il sospirato nulla-osta una sera di fine marzo 1868, e ne dà l'annuncio sventolando un fazzo­letto bianco dal finestrino della carrozza. Così, il 1 maggio 1868, si inaugura il Ritiro delle Budrie.

Dall'incidente clamoroso e sofferto possiamo dedurre tanti elementi sulla natura di questa iniziativa, sul suo carattere popolare, sulle linee di fondo. Abbiamo una misura autentica della statura spirituale di quelle ragazze e del visibile intervento di Dio, che si fa garante della fondazione, scudo e baluardo dei miti e umili di cuore. Dall'affare del 1867-68 balza in piena evidenza l'immagine di don Guidi che, posto in stato di accusa per il presunto «concentramento di monache», difende il nascente Ritiro con la tenacia dell'uomo d'azione e la prudenza del diplomatico. L'uomo che sale le scale dei potenti per salvaguardare il piccolo germoglio di bene sorto nella sua comunità parrocchiale, è mosso dallo Spirito di Dio, che lo riempie di forza e di sapienza: un autentico difensore e padre del Ritiro delle Budrie.

Nell'inchiesta della prefettura c'è quasi un'autenti­cazione della nuova esperienza. Dobbiamo ringra­ziare il Morisi, perché senza il suo reclamo saremmo privi di notizie da parte di una fonte certamente non sospetta; e non disporremmo di un testo che, pur nello stile burocratico, costituisce una vera e propria credenziale.

 
Al servizio del popolo di Dio

Il Ritiro si aprì il 1° maggio. Le ragazze entrarono povere e liete, con una cambiale in bianco sottoscritta dalla divina Provvidenza... La mattina, dopo la Messa, fecero ingresso nella casa del maestro Clelia e Orsola; la sera si unirono a loro Teodora e Violante. In questa entrata a due a due si avverte un richiamo evangelico, ma anche una precauzione di fronte al finimondo degli ultimi mesi.

In tavola, a cena, ci fu un uovo in quattro. E non mancò fin dal primo momento un segno di benedi­zione dall'alto e di solidarietà paesana. Una bambina di 6 anni, Maria Baroni, bussò alla porta con quattro pani: «Portali a Clelia tu che le vuoi tanto bene - le aveva detto la nonna - che abbiano da mangiare que­sta sera...».

La fondazione esprime l'ideale maturato negli ultimi anni. C'è un ampio respiro di preghiera, anche al mattino presto e alla notte tardi, e il cuore aperto a tutti i bisogni della comunità, con un particolare genio per cogliere i casi più acuti: figli abbandonati, orfani, malati, anime in crisi.

Clelia sapeva interpretare anche il silenzio, o lo scarso e inceppato linguaggio dei balbuzienti. Così fu per Celestino Cocchi, un allievo della classe dei comu­nicandi, il quale si era impappinato all'esame di dot­trina, come capita agli handicappati della parola in certe «giornate-no». Don Guidi, che pure era un mite di cuore, scosse la testa. Il ragazzo non fu ammesso alla prima Comunione.

C'era dietro una storia di miseria familiare. La mamma era costretta a mettere il ragazzo a servizio come garzone presso un contadino. La sera stessa Clelia, recatasi a casa, quando il ragazzo era già a letto, lo interrogò con tanta arte da renderlo insolita­mente sciolto nel linguaggio. Poté poi attestare al par­roco che era preparato; e così Celestino fece la comu­nione insieme agli altri.

La solidarietà della povera gente, all'interno dei cortili a cui si affacciavano le case dei pigionanti, era immediata e istintiva. Quel poco che era sulla tavola, diviso, si moltiplicava... Clelia, ancora tredicenne, aveva adottato la piccola Maria Ferrari rimasta senza mamma. Ogni mattina andava a farle dire le pre­ghiere, la pettinava, le insegnava a sbrigare le fac­cende di casa, l'accompagnava a scuola, e la invitava spesso alla sua povera cena condita di poco olio e molta carità... Maria, andata sposa a Carlo Gardini, diverrà madre di un vescovo, mons. Francesco Gar­dini, e non dimenticherà la sua giovane madrina: «Quello che so fare, l'ho imparato da lei; special­mente l'amore verso i poveri!».

Diriamisino e quiete


L'apostolato di Clelia e delle sue compagne è tipi­camente missionario e itinerante. Una disponibilità flessibile e mobilissima, come conseguenza dell'Euca­ristia, vena sorgiva del loro servizio. Forse dal nonno canapino, che seguiva di casa in casa nel suo lavoro giornaliero, ha appreso questo apostolato che ha l'im­mobilità dell'adorazione e l'estrema mobilità della vita apostolica.

Esternamente nessuna forma speciale; le ragazze vestono di nero a pallini bianchi e fanno la vita di tutti: vanno nei campi a spigolare, filano al lume di lucerna a veglia nelle stalle, e magari partecipano alla festa del Carnevale in cui i budriesi, in concorrenza con i personaggi del Carnevale persicetano, Bertoldo e Bertoldino, portano Sandrone in Samoggia.

Clelia non è la figura segregata nel senso mona­stico tradizionale, né lo poteva essere; ma è total­mente immersa nella comunità di paese: una figura viva, reale, non una di quelle immagini disincarnate e rarefatte che non si trovano fra la gente di questo mondo.

Quando giunge alla maturità, è paragonabile a una pianta innestata. L'humus, le radici, il tronco appartengono alla terra del suo villaggio, della sua famiglia, del suo cortile, della sua struttura comunita­ria. Ma c'è un germe nuovo, un dato inconfondibile che viene dall'opera creativa dello Spirito Santo. La storia dei santi è, nella sua realtà profonda e differen­ziale, il segno del passaggio di Dio.

Il minimo romito da Paola


Gli ultimi anni - dal 1 maggio 1868, giorno del­l'ingresso nella casa del maestro, al 13 luglio 1870 - sono pieni di luce. In misura semplice e campagnola si ripetono i prodigi dell'esodo e della prima comunità apostolica.

Clelia è come la fontana del villaggio. Ha il cuore liquido, come dicono. Profetizza. Intuisce i cuori. Smuove montagne indurite nel male. Consola i morenti.

Tanti episodi fanno sorgere in noi lo stupore evan­gelico, come il «fioretto» delle mele rubate e della lampada di S. Francesco da Paola.

Raccogliamo dalla viva voce di Anna Forni le perle di questo vangelo dell'infanzia, che segnò i primi passi del Ritiro delle Budrie.

Dice Anna: «Io ero cuciniera e una mattina non avevamo nulla in casa, neppure per sdigiunare; giac­ché può dirsi che per lo più si viveva della provvidenza che Dio mandava giorno per giorno. Mi presento alla fondatrice con una boccetta che conteneva un po' d'olio. - Ecco quello che abbiamo oggi: cosa faremo? - Con quel po' d'olio, rispose, andate e accendete il lume a san Francesco da Paola».

Il «minimo fra i minimi» era un grande amico di Clelia Barbieri; la sua immagine con la barba, il cap­puccio, lo stendardo dal motto «Charitas» era in posi­zione di onore nell'arredo della casa del maestro. Una lampada perenne vi ardeva anche nei giorni di magra.

La grande cesta della Provvidenza


A malincuore Anna andò ad eseguire l'ordine: «Mi ricordo benissimo che, mentre accendevo, minac­ciai con la mano il nostro S. Francesco dicendo: «Guai a voi, se non provvedete!».

Passarono poche ore e si sentì bussare alla porta. L'umile cuciniera andò ad aprire. Si presentò un uomo con una grande cesta, colma di ogni ben di Dio: farina, pane, vino e tante altre cose... Clelia aveva avuto ragione, come sempre, con quella sua fede sem­plice, tale da spostare montagne di miseria e di sfidu­cia.

La devozione verso il santo da Paola aveva una espressione popolare diffusa dovunque: i tredici venerdì in preparazione alla festa del 2 aprile, con pre­ghiere che ripercorrevano la storia di questo calabrese dal miracolo facile, incantevole per la semplicità, sia che fosse fra i mandriani della sua terra che alla corte di Luigi XII; l'uomo della quaresima perpetua e pur straordinariamente longevo (27 marzo 1416 - 2 aprile 1507), eremita per vocazione e pur risucchiato dai massimi problemi della sua epoca.

Clelia imparò da mamma Giacinta a invocare il «minimo povero romito da Paola»; non perse l'abitu­dine quando intorno a lei si cominciarono a radunare le ragazze, che otto anni dopo la sua morte presero, con evidente riferimento al santo da Paola, il nome di Minime.

Quando si trattava di affrontare difficoltà serie o progetti impegnativi, Clelia si rivolgeva al suo inter­cessore e patrono con la «tredicina» tradizionale.

Fu sotto l'immagine del «vecchio dalla barba bianca» che durante la malattia le apparve il futuro benefattore. Nell'aprile 1869, al termine dei tredici venerdì, si presentò alla canonica un uomo, mandato da Vincenzo Pedrazzi, per chiedere informazioni sul­l'opera nascente. Di lì venne un flusso continuo di aiuti, dalle tre corbe di frumento alla edificazione della casa madre.

Tutto era cominciato dai «canapoli», quando Cle­lia mandò Giuseppe Garagnani, papà della Violan­tina, da un contadino del Pedrazzi, perché gli desse un mazzo di cannarelle di canapa per farne degli zolfa­nelli. Il contadino lo mandò dal padrone. Il padrone da don Guidi. Nacque una provvidenziale amicizia.

Le mele rubate


Un altro episodio - quello delle mele rubate - sa dei libri della Sapienza e mostra quanto fosse pene­trante il discernimento della ragazza delle Budrie.

«Mia mamma - dice Anna Forni - ebbe l'idea di portare alla Clelia e alle sue compagne alcune mele; ma vedendo che erano poche, ne raccolse alcune sotto gli alberi di altra proprietà e ne prese pure dagli alberi, fuori del proprio campo; tutte insieme le portò alla Clelia. Questa nell'accettarle, le divise in tre parti e disse: - Questa parte la tengo, perché l'avete rac­colta nel vostro campo; così questa seconda parte, perché l'avete raccolta sotto gli alberi; la terza no, perché l'avete rubata».

Quando Clelia parlava così, la guardavano con un sentimento di tremore. Lo spirito di profezia agiva in lei e le accendeva il volto...

In quei brevi anni visse molte vite in una sola vita. Il Signore aveva come condensato in lei molti carismi che avrebbero dovuto espandersi nel futuro della sua famiglia spirituale: carismi di luce, carismi di pace, carismi di carità apostolica.

 
La chiamarono madre

I fatti straordinari non avvenivano tutti i giorni; ma nemmeno tanto di rado. La Provvidenza mandava la manna quotidiana in quel deserto di povertà e di fede. Orsola, così aliena dal pubblicizzare gli eventi che accompagnarono la fondazione, racconta che una sera, trovandosi senza niente da cena, le sorelle si disponevano già a tornare in famiglia per sfamarsi. Clelia le invitò ad avere fiducia. Dissero il rosario, e al termine della preghiera arrivò una donna con una sporta piena del necessario per mangiare. Anche altre volte la prodigiosa «sporta» integrò lo scarso piatto della cena serale. Una provvidenza misurata e quieta, di cui si stenta a sollevare il velo.

Il male di Clelia


La fede di Clelia era proverbiale, come il suo rac­coglimento. A volte, durante il lavoro di cucito, nel colloquio con le compagne, nelle visite al taberna­colo, sembrava astrarsi. Le braccia protese in alto, il volto infiammato... parlava con un essere invisibile. Erano le estasi. Le compagne dicevano: «Oh! Clelia ha il suo male... »; e aprivano le finestre... Questo stato si protraeva a volte per più di mezz'ora. Ci fu chi consigliò di portarla dall'arciprete di S. Ruffillo, nella periferia di Bologna, per una benedizione... In realtà, in quei momenti di esperienza mistica, comunicava con un interlocutore più forte, che sempre più diven­terà il protagonista della sua vicenda terrena. Clelia non uscì mai dal triangolo della canapa: S. Giovanni, Anzola, Castelfranco Emilia. Il suo fu il piccolo pendolarismo della gente che non ha mezzi di trasporto e solo vede, di quando in quando, qualche carrozza tra il polverone delle strade di campagna. Eppure la sua intuizione dei bisogni e la sua capacità di lettura degli eventi l'aiutarono a superare l'argine del fiume e l'orizzonte paesano.

Clima di fede


La figlia del bracciante e le sue compagne restano quello che sono, dove sono, come sono, poste a tempo pieno al servizio della comunità del villaggio. L'esperienza di tre anni nella casa del maestro non smentisce nulla del progetto iniziale, se mai ne precisa sempre più la matrice eucaristica, il rapporto vitale con Cristo e con la Chiesa, l'attenzione privilegiata ai piccoli, ai malati, ai poveri.

Nel Ritiro delle Budrie si respira un clima di fede, una vera fame e sete di Dio, un istinto missionario, pieno di creatività e di fantasia, quasi indifferente rispetto ai mezzi organizzativi, le cosidette strutture. C'è una nota costante di semplicità evangelica; la pura e santa semplicità, direbbe S. Francesco d'As­sisi, che è sorella della sapienza. Qualcosa di inimma­ginabile per noi che apparteniamo a una cultura sofi­sticata e complessa: un insieme di umiltà, di forza morale, di calma, di lucidità che caratterizza il porta­mento, l'abito, il linguaggio.

La stoffa di cui sono fatte queste ragazze si vede nelle emergenze storiche che non risparmiarono né il capoluogo persicetano, né i suoi dintorni rurali.

I tumulti del giorno sette


Il 1° gennaio 1869 fu un capodanno inquietante, entrando in vigore l'imposta sulla macinazione dei cereali, in ragione di lire 2 per la bianca e di 0,80 per la farina gialla, ogni quintale. La legge, decisamente impopolare, che incideva sul già magro bilancio della povera gente, suscitò un'impressionante reazione a catena in tutta l'Italia settentrionale, segnatamente a Reggio, Parma e Bologna. La violenza dei moti rag­giunse il culmine a S. Giovanni, il giorno dopo l'Epi­fania: ancor oggi, nel persicetano, il «giorno sette» significa il dies irae.

Sulle ore 10, i rivoltosi - circa tremila - armati di bastoni, mannaie, falci e fucili, invasero il capoluogo, dirigendosi verso il palazzo comunale. Il sindaco Mariani, il pretore, il delegato di P. S., il maresciallo dei CC. tentarono con promesse di sedare la rivolta; il sopraggiungere di una colonna di dimostranti da Sala Bolognese, al rullo di tamburi, fece precipitare la situazione; e tutto fu inutile. Devastato il municipio, gettate dalle finestre masserizie, documenti d'archi­vio, oggetti di arredo, il guasto investì il telegrafo, l'ufficio del registro, l'esattoria, l'archivio della parte­cipanza, i negozi, gli spacci, le osterie, le case dei notabili.

Nelle prime ore del pomeriggio era alle porte di S. Giovanni in Persiceto, con due pezzi di artiglieria leggera, un battaglione di bersaglieri che - dopo lo squillo di tromba - entrarono a passo di carica, aprendo un fuoco micidiale. Alle 5 del pomeriggio la situazione era ristabilita, ma a quale prezzo! Sulla piazza e sulle strade, cosparse di ceneri, tizzoni, carte bruciate, rimasero dieci morti, fra cui due giovani fidanzati assolutamente estranei alla vicenda e nume­rosi feriti.

Fonte di luce e di conforto


Seguirono giorni difficili. Il governo Menabrea aveva delegato i pieni poteri a Raffaele Cadorna, che insediò a Bologna il suo quartier generale. Truppe in pieno assetto di guerra stazionarono in Persiceto e dintorni, operando perquisizioni e arresti di centinaia di cittadini, in prevalenza braccianti e coloni.

Il villaggio delle Budrie ebbe la sua parte nel calice amaro:

«La forza pubblica - riferisce suor Vincenza - intervenne anche alle Budrie. Non so in quale giorno, vennero soldati a cavallo; e fu circondata la chiesa, quando la popolazione era dentro, per catturare i responsabili. Fu uno spavento generale; quelli che erano in chiesa, particolarmente le donne, diedero in urla e pianti suscitando uno scompiglio indescrivibile. La serva di Dio, che si trovava dentro, riuscì col suo prestigio e con la sua parola a tranquillare la popola­zione agitata e specialmente le donne, assicurando che nulla sarebbe avvenuto di grave. Ho sentito dire che qualcuno fu catturato e il parroco stesso dovette seguire fino a S. Giovanni il

comando della forza pub­blica, ma fu lasciato subito in libertà».

Non desta meraviglia che, in quei giorni di timore e di amarezza, i parrocchiani delle Budrie si stringes­sero intorno a Madre Clelia, ravvisando in lei un segno di luce e di conforto in una situazione pesante ed oscura. Infatti, la serva di Dio, la quale negli avve­nimenti del 1866 era rimasta turbata fino all'angoscia, manifesta ora uno stile nuovo e - confermata dal consenso comune nella sua vocazione di sorella dei poveri - irradia intorno a sé un senso di serenità di fortezza evangelica.
La regola del silenzio

Come i poveri del Vangelo Clelia e le sorelle hanno il dono della sapienza, ma non sanno di averlo; non sanno di sapere. Ciò le mette al riparo dalla ten­tazione presente anche nelle persone buone, che è quella di citare se stessi, di autoreclamizzarsi. Vige la regola del silenzio: ci si fa santi di «nascosto», d'ar­piat, dice Orsola.

Proprio in questa condizione silenziosa il gruppo iniziale, presto accresciuto da altri arrivi, sperimenta in modo inconsueto la provvidenza del Padre che nutre gli uccelli dell'aria e veste i gigli del campo. Dalle mani che non possiedono nulla scaturiscono doni, e dal cuore semplice zampilla la sapienza. Dio fa lievitare questo nucleo come una grande benedizione che si estende a cerchi concentrici dal villaggio ai suoi dintorni vicini e lontani.

A poco a poco, di qua e di là dal Samoggia, la gente riconosce a Clelia un ruolo di guida, consola­trice, maestra nella fede. Da cortile a cortile, da borgata a borgata, da campanile a campanile, la ven­tenne delle Budrie fu vista come il segno che il Signore non lascia mai mancare al suo popolo: la san­tità. La santità giovane, la santità paesana, la santità ardente.

Interesse, curiosità, emozione le crearono un'at­tenzione affettuosa e per certi aspetti preoccupata, che costringeva i giovani e gli anziani a una revisione di coscienza e di vita. Nelle case, nelle botteghe, nelle stalle, che d'inverno erano il salotto dei poveri, cominciarono a chiamarla «Madre Clelia». Fu il modo con cui la tradizione popolare, prima ancora dei sommi pontefici, canonizzò la ragazza delle Budrie. Così, in epoca recente, il termine «Madre» ha consa­crato Teresa di Calcutta.

«Una memoria io voglio scrivere»

Due fatti meritano di esser segnalati. Portano la data della Domenica 31 gennaio 1869 e del 25 marzo dello stesso anno, Giovedì santo: episodi salienti che compendiano tutta la vita di Madre Clelia.

Il 31 gennaio 1869, sulle rive del Samoggia, il ter­mometro toccò punte di 14 gradi sotto zero; e non meno rigida, dopo i moti del macinato, fu la meteoro­logia sociale. I giovani arrestati nel pomeriggio del 10 gennaio si trovavano in carcere in attesa del processo. Le campane tacevano...

Quella Domenica di Sessagesima

La gente si avviò alla chiesa per la prima Messa tra paure e speranze. Mai liturgia di Sessagesima fu così partecipata. Intorno al celebrante si schierava tutta la comunità. Le donne nella navata centrale, gli uomini nel transetto; i bambini sulle panchine davanti all'al­tare... Clelia con le sorelle del ritiro in un proprio banco. L'abito invernale, con il velo e lo scialle, custodiva bene le emozioni e il raccoglimento.

Don Guidi, dichiara la relazione per la sacra visita, «cercava di adempiere puntualmente i doveri del ministero, fra cui non tiene certamente l'ultimo posto la spiegazione e la dichiarazione dell'Evangelio e parola divina».

A Sessagesima il lezionario biblico proponeva, oltre la II lettera di Paolo ai Corinti (11,19-33; 12,1-9), la parabola lucana del seminatore (8,4-15), oscura per gli estranei, ma chiara per i discepoli: «A voi è stato dato di conoscere i misteri del Regno di Dio». Il curato si lasciò afferrare dal realismo di quella parabola contadina ed ebbe accenti di elo­quenza insolita.

Per Clelia ogni Messa era un avvenimento; ma quella giornata così gelida registrò qualcosa di inat­teso. Vi fa riferimento la «lettera a Gesù», che amiamo chiamare il «memoriale» di Madre Clelia. È l'unico scritto di suo pugno a noi rimasto; e non dob­biamo nemmeno rammaricarcene, tanto è vivo e pre­gnante.

Caro il mio Sposo Gesù

Una memoria io volio scrivere per averla sempre in memoria. Grandi sono le grazie

che Iddio mi fa

il giorno 31 del mese di Gennaio 1869 nel mentre che io mi trovava in Chiesa a udire la santa Messa

mi senti una inspirazione granda

di mortificare la mia volontà in tutte le cose per piacere sempre più il Signore

e io mi sento la volontà di farlo

ma le mie forze non ne o bastanza granda Ho grande Iddio

voi vedete la mia volontà

che è quella di amarvi

e di cercare sempre di stare lontano dalla vostra offesa ma la mia miseria e tanto grande

che sempre vi offendo. Signore

apprite il vostro cuore

e butate f ùora una quantità di fiamme da more e con queste fiamme acendete il mio

,fate che io brucio da more. Ha cara la mia buona figlia

tu non puoi credere quanto sia grande la more che ti porto

il bene straordinario che ti voglio

la speranza che ho di vederti santa e straordinaria, dunque coraggio nei combatimenti

sì fatti pure coraggio che tutto andarà bene e cuando tu ai dele cose che ti disturbano fatti coraggio a confidarmelo

e io con la iuto del Signore cercarò di chietarti

amate Iddio

e non ti dimenticare di me povera peccatora.

Sono la tua serva Clelia Barbieri

 

L'autografo, letto e meditato con amore, rivela aspetti sempre nuovi e sorprendenti. Dice come Cle­lia parlava e come catechizzava; esprime la sua sensi­bilità ardente e volitiva, la sua umanità realizzatrice e carismatica; documenta il passaggio dello Spirito in uri momento critico della comunità.

Il giorno, il mese, l'anno, indicati così dettagliata­mente, fissano l'inquadratura storica. Nel capoluogo è stata ammainata fin dal 12 giugno 1859 la bandiera pontificia e issato il tricolore sabaudo; nelle scuole c'è il ritratto del re al posto della B.V. di S. Luca... La gente è inquieta. Le lunghe ferme militari dei giovani, i difficile rapporti fra i parroci e le autorità municipali, l'effetto dirompente della tassa sul pane, hanno creato un'atmosfera angosciosa nei borghi e nelle case.

Fra grammatica e mistica

Per capire il senso pieno dello scritto del 31 gen­naio dobbiamo calarci in questa situazione, con l'animo di colei che è partecipe del dramma della sua gente, e nello stesso tempo si protende verso la chia­mata ultima dello Sposo.

Sono due pagine in tutto: 54 righe e 226 parole. Si potrebbero intitolare così: 1° - «della volontà»; 2° - «della grazia». La volontà: quanta ne aveva Madre Clelia! Questa parola ricorre tre volte con sfumature diverse, che indicano l'io da mortificare, il fermo pro­posito, il desiderio ardente di amare il Signore.

Nella seconda pagina si respira un clima diverso, dominato dalla presenza del Signore. Gesù chiama Clelia «cara la mia buona figlia»; lei si dichiara «povera peccatora», «serva», «sposa». Il Voi si scioglie nel Tu, indice di coraggiosa confidenza sponsale. Per tre volte risuona, da parte del Signore, l'invito al coraggio: «dunque coraggio nei combattimenti (le prove esterne)... sì fatti pure coraggio... e se hai delle cose che ti disturbano (le prove interiori) fatti coraggio a confidarmelo... ». Quando arriva in fondo sotto­scrive: «Sono la tua serva Clelia» (aggiungerà poi il cognome «Barbieri»); e in alto pone l'intestazione «Caro il mio Sposo», a cui farà seguito la parola »Gesù», con un tratto di penna più sfumato. Così lo scritto, che all'inizio è essenzialmente un promemo­ria, diviene una lettera a Gesù.

Clelia e Pascal

L'autografo interessa anche come prova della familiarità che Clelia aveva preso con la penna. Del resto la tradizione dice che scriveva biglietti di monito e di incoraggiamento ad alcune giovani, che forse in seguito fecero parte del gruppo. Nel suo piccolo fu catechista epistolare, apostola della corrispondenza.

Certo il grado di conoscenza della grammatica è meno che elementare; ma quando vuol farsi capire, ci riesce; la sua comunicazione è calda e schietta.

A suo modo sa tenere la penna in mano. Ad esem­pio, la frase iniziale è un modello dell'artificio lettera­rio detto della «inclusione», caro a S. Giovanni evan­gelista: «Una 'memoria' io voglio scrivere per averla sempre in 'memoria'». Così il rapido passaggio dal passato al presente, la ripetizione di parole-chiave, l'uso insistito dei pronomi e dei possessivi, rivelano uno stile personale, in cui idea-parola-realtà fanno corpo tra loro. In tutto il testo c'è una sola virgola, piazzata strategicamente davanti a quel «dunque coraggio» che segna una svolta nel discorso e nella­vita.

Se paragoniamo queste due pagine sgrammaticate con il memoriale, scritto nella «notte di fuoco» della conversione, che Pascal portava sul cuore, letteraria­mente c'è un abisso; ma nella sostanza la ragazza delle Budrie e il genio francese si incontrano.

«Non il Dio dei filosofi, ma il Dio dei Padri, il Dio di Cristo», scrive Pascal; e Clelia con quella sua scrit­tura che man mano si allarga, fino a divenire infuo­cata e tumultuosa, dà voce ai pensieri del cuore con parole dense di luce e di sapienza, che caratterizzano la fase più alta dell'esperienza spirituale. Se due anni prima Clelia attraversava la notte oscura, ora è nella fiamma viva.

Essa portò sul cuore questo foglio di carta ripie­gato in 12 parti, forse dentro un sacchettino di tela, come usava per le medaglie e per lo scapolare della Madonna del Carmine.

Le sorelle, dopo la morte di Clelia, lo misero in una cornice povera e disadorna con quattro punte da ingegnere. Ora resta come un trofeo tra le reliquie più preziose - la Filotea, La Pratica di amar Gesù Cristo, la catenella penitenziale, il cuore con le punte, la ciocca di capelli - e costituisce il testamento spiri­tuale, il messaggio conclusivo di colei che è stata idea­trice, modello e guida della fondazione delle Budrie.
 
La cena del Giovedì Santo

Il Giovedì santo 1869 coincise con la data tradizio­nale dell'Annunciazione, il 25 marzo; e fu, a tutti gli effetti, festa di precetto. Non accadeva dal 1728.

Alle Budrie, come in tutto il persicetano, le cam­pane ebbero modo di risarcirsi del forzato silenzio che perdurava dal 7 gennaio e il dies natalis calicis si dispiegò in tutta la sua bellezza. Al termine della Messa solenne, don Guidi portò la riserva eucaristica - l'Ostia grande per il Venerdì santo e le particole per gli infermi - nell'Oratorio di S. Giuseppe; poi, rientrato in chiesa, procedette alla spogliazione degli altari.

Nelle ore pomeridiane, al di qua e al di là del Samoggia, si snodò il pellegrinaggio popolare impro­priamente detto «visita ai sepolcri», con il rituale di sempre... Ma un evento nuovo si compì nella loggia al primo piano della casa del maestro.

Il racconto di Carmela Donati

La tradizione più accreditata giunge a noi per bocca di Carmela Donati, sorella di Madre Orsola: «Il Giovedì santo Clelia mi ordinò di cercare dodici ragazze di 16-17 anni; le fece sedere e, postasi alla cin­tura un grembiule, lavò loro i piedi. Quindi si sedette con loro ad una specie di cena, fatta di radicchi e di una bevanda amara con erbe bollite, che somministrò dentro dei bicchieri a forma di calice. Poi, inginoc­chiatasi sopra una sedia fra due armadi, parlò per quasi mezz'ora della Passione del Signore. Nessun predicatore aveva mai parlato così...».

Una sostanziale continuità lega l'episodio del Gio­vedì santo all'«inspirazione granda» del 31 gennaio... Lo scenario non è la chiesa, ma la casa. Gli attori, oltre a Clelia, sono dodici ragazze del paese: sei appartenenti al ritiro e sei ragazze da marito, tutte solidali tra loro.

Niente del genere, a memoria d'uomo, era mai accaduto alle Budrie. Quel rito rientrava nella prassi delle cattedrali, dei cenobi, delle collegiate. Qualcosa di più estroso e borghigiano apparteneva alle abitu­dini delle confraternite, che alla lavanda dei piedi facevano seguire una frugale agape di mandorle e fichi secchi, al canto di antiche laudi della passione.

Lavanda, agape e discorso si inserivano in un con­testo biblico-liturgico. Chi era andato il giorno prima a raccogliere lattughe e radicchi selvatici aveva ben chiaro, anche nei particolari, il riferimento all'ultima Cena.

Eucaristia e vita

Siamo ricondotti alla fonte della santità e del servi­zio di Madre Clelia: l'Eucaristia.

Allora era più vissuta che parlata. Vigeva una disciplina rigida: digiuno che si infrange con un sorso d'acqua o con un chicco di miglio; rarità del ban­chetto; timore e tremore di fronte all'Ostia... Quasi una disciplina dell'arcano.

Il Santissimo Sacramento permeava la vita. Dire Eucaristia e comunità non era solo una tesi del teo­logo, ma un dato dell'esperienza nelle forme e nei modi dell'epoca. L'atmosfera del villaggio recava questo segno in privato e in pubblico. La settimana culminava nell'Eucaristia domenicale, che si rifletteva su tutta la realtà, dalla mensa all'abito, al lavoro, alle relazioni sociali. La Domenica era davvero la festa primordiale, la Pasqua di ogni settimana.

L'anno aveva in sé questo polso eucaristico. Il cri­stiano adulto era ancora per l'anagrafe parrocchiale «anima da comunione».

Che festa per il Corpus Domini con l'Eucaristia portata in trionfo sulle vie, sugli argini, sulle piazze! Per le Quarantore c'erano usanze tipiche per ogni paese, e l'altare delle umili pievi diventava trono e arco trionfale al mite re di gloria.

Ma anche la storia dell'uomo: nascere, morire, sposarsi, partire, ammalarsi, guarire... tutto portava questa impronta. Un viatico era un piccolo Corpus Domini. Una prima Messa faceva storia.

Fra le strutture parrocchiali la «Compagnia del Santissimo» era quella più popolare. Tutti - uomini e donne - ne facevano parte. Così Clelia. Bisogna aggiungere al titolo di «operaia della dottrina cri­stiana» l'altro di «consorella della Compagnia del SS.mo», come il suo svolgimento logico, il compi­mento. I due gesti del 1869, inseriti e meditati in que­sta luce, sono il segno che l'Eucaristia fu realmente culmine e fonte, anima del Ritiro e della comunità intera; e insieme gesti profetici, presaghi della fine.

Tutta la vita di Clelia si protende verso l'Eucari­stia, e lì consuma la sua ultima offerta. Quando don Guidi salirà la scala della casa del maestro per recarle il viatico nella stanzetta da cui vedrà insieme l'argine del fiume, il futuro della famiglia e le porte della Gerusalemme celeste, quella sarà la sua Pasqua ultima, il sigillo al patto sponsale con Gesù, di cui por­tava sul cuore «la memoria per averla sempre in memoria».

La tua speranza non perirà

A questo anno privilegiato sembra doversi ascri­vere anche la foto che Zaccaria Nanetti scattò nell'O­ratorio di S. Giuseppe. Di essa possediamo solo un ritaglio, noto come «ritratto di Madre Clelia», mentre il formato originario comprendeva altre figure.

La fotografia rende bene il clima del 1° anniversa­rio di apertura della casa del maestro. La scena fissata da Zaccaria potrebbe identificarsi con il rito di vesti­zione, a cui fa cenno una teste al processo apostolico: «Dopo circa un anno il parroco pensò di dare un abito alla Clelia e alle sue compagne, di color nero, sem­plice ed uniforme».

Clelia appare in una condizione di serena quiete. L'abito, dalla sobria eleganza, si rivela qualcosa di più di un accorgimento della regia; l'indice della destra proteso verso l'alto non può avere il generico valore di una manualità spontanea; il crocifisso brandito con la sinistra appare il distintivo di una consacrazione­missione, che ha il suo modello nella configurazione a Cristo e all'Addolorata.

Clelia, quasi appoggiata a una delle svelte colonne di fianco all'altare, ha davanti a sé le compagne che condividono il suo progetto e le riconoscono una maternità spirituale. Nell'abside sta la pala di Vin­cenzo Spisano, che raffigura S. Giuseppe agonizzante con Maria inginocchiata ai suoi piedi. Gesù conforta il padre putativo, indicandogli con il dito della mano destra i cieli aperti, mentre nello squarcio della gloria gli angeli mostrano un cartiglio con la scritta: «Spes tua non peribit - La tua speranza non perirà». (Prov. 24,14).

Maria Addolorata ha il volto delle donne budriesi e di mamma Giacinta, quando in quel lontano 11 luglio 1885 papà Giuseppe morì ucciso da un colera fulminante. Clelia lo doveva sentire in modo speciale. L'icona è la vita.

 
Il congedo

Clelia è ormai matura per il cielo. Con l'ultima malattia, durata circa 7 mesi, la mano del Signore rompe la tela al dolce incontro. Una ricaduta del suo male la incornicia nella stanzetta al primo piano, donde spazia sulla verde pianura fino e oltre l'argine del Samoggia: una tisi violenta con rigurgiti sanguigni.

Un profeta armato

La malata continua a vivere in stato di profezia. A suo modo, è quello che si dice un profeta armato, una lampada posta sul candelabro. L'umile saccone è una cattedra, da cui evangelizza con grande sapienza ed energia. Gli ospiti entrano in punta di piedi e se ne vanno con le lacrime agli occhi, confermati nel bene.

Vuole essere soprattutto testimone di pace e di misericordia. Chiama zio Zeffirino e gli dice: «Zio, non era un capriccio; era volontà di Dio. Ma se ti ho involontariamente dato dispiacere, ti chiedo per­dono». Il fratello di mamma Giacinta esce dalla camera singhiozzando, senza fare parola.

Due giorni prima di morire chiede di essere trasfe­rita in un'altra stanza: cerca un ambiente intatto, pro­spiciente la chiesa, per celebrare la Pasqua. Si volge ad oriente, verso il Signore che viene. Al suo capo ha l'immagine dell'Addolorata; davanti, S. Francesco da Paola, amico e confortatore nell'ultimo combatti­mento; nelle mani il Crocifisso.

A don Guidi chiede un altro favore: «Portatemi la Madonna». Nell'oratorio di S. Giuseppe c'è infatti la statua della Beata Vergine delle Grazie traslata dal­l'oratorio di S. Antonio, in restauro. Il desiderio è appagato. Venerata sotto il titolo delle Grazie, in realtà è un'immagine della Beata Vergine del Car­melo. Viene portata processionalmente al capezzale dell'inferma, che ha voluto essere iscritta al Carmine, per un incontro che ormai va al di là del segno verso la realtà significata.

Poche ore dopo, Clelia entra in coma. Un sopore profondo. Si risveglia. Parla, esorta, consola. Pronun­cia le parole del «suo salmo»: Amate e temete il Signore, perché è grande e buono.

Quindi entra in un sopore lucido, devoto, sensibi­lissimo. Appena un istante di turbamento, poi una calma suprema. Il congedo dai suoi cari. La promessa ad Orsola. Le sussurra affettuosamente prendendole la mano: «Orsolina, tu farai le mie veci; non avere paura, non scappare... Io me ne vado, ma non vi abbandonerò mai... Vedi, quando là, in quel campo d'erba medica accanto alla chiesa, sorgerà la nuova casa, io non ci sarò più... Crescerete di numero e vi espanderete per il piano e per il monte a lavorare la vigna del Signore. Verrà un giorno che qui alle Budrie accorrerà tanta gente, con carrozze e cavalli...».

Aggiunge: «Me ne vado in paradiso; e tutte le sorelle che moriranno nella nostra famiglia, avranno la vita eterna... Qui muoio contenta... Questa camera sarà convertita in cappella; vi sarà celebrata la santa Messa e voi sarete molto consolate».

Poi raccomanda al parroco la mamma; la sorella Ernestina, sposa dal 24 maggio; le compagne, fra cui non c'è più Teodora. morta il 16 dicembre 1869. Dà loro il saluto di addio. Uno sguardo intorno, un sor­riso; e spira. Sono le ore 18 del mercoledì 13 luglio 1870. Clelia ha 23 anni, 4 mesi, 28 giorni.

Il chicco di grano nei solchi della terra

È una morte esemplare; e, dopo il transito, si dif­fonde una straordinaria irradiazione di pace e di ener­gia soprannaturale. Il paese accorre alla notizia della morte come a un trionfo; autentico anche se paesano: i fiori che adornano la bara sono di carta, ritagliati con le forbici.

Ascoltiamo un testimone oculare, Valentino Moruzzi: «Io allora avevo 6 anni. Noi bambini non potemmo entrare in chiesa il giorno dei funerali, la mattina del 15 luglio, per la moltitudine che c'era. Ma riuscii a vedere la bara prima che fosse portata in chiesa. Era ancora aperta e sopra vi era disteso un velo bianco, attraverso il quale assieme ai miei com­pagni la potei vedere distintamente. La ricordo come se l'avessi presente... Non vi erano fiori freschi e veri, anche perché in quei tempi e in quei luoghi non c'era l'uso; c'erano dei fiorellini di carta che ho toccato con le mie dita disposti ad archetti ai fianchi della salma...».

Nel vecchio camposanto, sul sagrato, don Guidi pose qualche anno dopo un'epigrafe di rara bellezza: «Qui riposano le spoglie verginali - di Clelia Barbieri - ammirata fin dalla puerizia per ritiratezza modestia e carità - e per il dono di attrarre le anime a Dio - elet­tasi con tre compagne comunanza di povera e santa vita - iniziò la famiglia delle Minime dell'Addolorata - le diede regole e spirito - ed un biennio dappoi passò lieta al celeste Sposo».

Quella morte emozionò tutti, e scosse qualche anima, come in un ultimo sconvolgente colloquio. Si spezzarono cuori induriti; molti che erano morti spiri­tualmente, risuscitarono (cfr. Mt 27,52). A documen­tazione citiamo il caso di Teresa, figlia adottiva di Giovanni Girotti, l'artificiere delle Budrie: «Alla vista della salma - dice suor Imelde - una giovanetta assai mondana si convertì ed altre undici risolsero di abbracciare lo stato religioso». Teresa morirà nell'epi­demia di vaiolo che infuriò sul finire del 1871. Si era subito messa al lavoro. Il suo nome figura nell'elenco delle operaie della dottrina cristiana, sicuro indizio di una nuova scelta di vita.

Un anno dopo, la voce.

A un anno di distanza dalla morte, la sera del 13 luglio, Clelia è nel cuore delle sorelle. Nella casa del maestro si rivivono i giorni e le ore del suo congedo, in un clima di fraternità e di preghiera. Ed ecco, la voce.

«Raccontano le prime compagne»: «Volemmo santifi­care in modo speciale quella data memoranda e stabi­limmo di fare il giorno di ritiro nella stessa camera ove Clelia era spirata; camera che era già stata eretta a cappella, ove si celebrava, senza però potervi tenere il Santissimo.

Ad ogni ora andavamo a pregare; e più che in ogni altro giorno ci sentimmo unite allo spirito di lei, che sempre ricordavamo con venerazione. Ad un punto della nostra preghiera una voce alta, armoniosa, cele­stiale accompagnò il nostro coro, volteggiando a destra e a sinistra, innalzandosi e sfiorando le orec­chie.

Il giubilo che apportava questa voce riempiva gli animi nostri di una gioia impossibile a descriversi. Quella non era cosa terrena. Noi vivemmo in quel giorno ore di paradiso. A quando a quando era neces­sario uscire... L'emozione che si provava era sì forte che toglieva il respiro, e con impeto si doveva gridare: - Basta, Signore, basta!».

Orsola non ebbe dubbi: è Clelia! Quando il gruppo delle sorelle si portò in cappella, per l'ultima preghiera prima del riposo, la voce si fece sentire più intensa e perentoria. Vegliarono tutta la notte davanti al tabernacolo della chiesa parrocchiale, pensando non ci fosse luogo più adatto per questo imprevedibile colloquio. E la voce pregò con loro fino all'alba.

Da quel giorno non le ha più lasciate. Si fa sentire, a intermittenza, negli ambienti e nei contesti più disparati; e in modo che tende a condensare nel tono, a volte dolente e supplicante, più spesso incoraggiante e sereno, il servizio che Clelia da viva aveva reso costantemente alla comunità.

La voce si fa messaggio, rivolto a persone di ogni ceto, ma soprattuto alle Minime dell'Addolorata che ne sono destinatarie previlegiate. In questo segno le sorelle videro attuata la promessa di Clelia morente: «Non vi abbandonerò, ma sarò sempre con voi». Dell'argomento, oltre il Gusmini - che tolse la consegna del silenzio data dai suoi predecessori - si occupò in modo particolare il p. Nicola Monaco, gesuita, il quale raccolse ben 150 testimonianze dal 1871 in poi. Significativa fra le tante quella di mons. Cesare Sarti, che nel 1916 udì la voce accompagnare il rosario dei soldati nella cappella dell'ospedale mili­tare allestita nel Seminario Regionale di Bologna. E anche i soldati l'avvertirono sia a Bologna che a Mestre, dove le Minime prestavano servizio infermie­ristico. È avvenuto anche nel 1943 durante la seconda guerra mondiale, tra i soldati dell'ospedale da campo presso l'asilo di S. Giovanni in Persiceto.

Le Minime dell'Addolorata

Ancor più che in questo fenomeno Madre Clelia si fa sentire nella tradizione vivente delle sue sorelle: le Minime dell'Addolorata, come il card. Lucido M. Parocchi le battezzò nel 1878. È in questa eredità spi­rituale che noi abbiamo la lettura autentica e continua di una testimonianza cristiana, semplice e popolare, proposta come modello alla Chiesa universale da Paolo VI il 27 ottobre 1968, quando la ragazza delle Budrie fu detta «Beata».

Lo stesso titolo di Minime dell'Addolorata esprime lo spirito e la linea. Minime dice umiltà, povertà, servizio; l'Addolorata richiama la realtà dei paesi della valle padana nella sofferta dignità dei miti e umili di cuore, solidali con Cristo e fra loro. Così attraverso la sua famiglia religiosa la ragazza delle Budrie si fa oggi sorella, commensale, catechi­sta, infermiera dei piccoli, dei malati, dei poveri del mondo. E c'è tra lei e loro una corrispondenza reci­proca, un patto sociale, un'intesa misteriosa. Lo confermano i Vescovi della Regione Emiliano-Roma­gnola:

«Quelli che maggiormente sono attratti da Madre Clelia sono gli umili, i sofferenti, i giovani, i catechi­sti. Gli umili la sentono una di loro; i sofferenti, loro sorella; i giovani, loro coetanea; i catechisti la ricono­scono modello, come evangelizzatrice a servizio pieno e perseverante...»

 
Sul candelabro

Va aumentando il numero dei fedeli che passano alle Budrie giorni interi o brevi periodi di raccogli­mento, per imparare il segreto della preghiera e la gioia dell'abbandono in Dio. Molti ricorrono alla intercessione di Madre Clelia, e si moltiplicano le testimonianze di riconoscenza per i favori celesti implorati e ottenuti. Quelli spirituali sono i più nume­rosi. Sembra pure che il Signore manifesti, per il suo tramite, la predilezione per i poveri, gli emarginati, coloro che non contano, quasi a far continuare alla ragazza delle Budrie quell'umile servizio di carità che le era così caro sulla terra.

La beatificazione


Di questa santità giovane, maturata nei solchi della buona terra, Paolo VI espresse mirabilmente la sostanza evangelica nel discorso del 27 ottobre 1968, all'atto della beatificazione:

«A che cosa paragoneremo il regno di Dio? o con quale similitudine lo figureremo? Esso è simile a un granello di senapa, il quale, quando si semina in terra, è più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra; ma, seminato che sia, cresce e diventa più grande di tutti gli erbaggi e fa dei rami così grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra» (Mc 4,30-32).

A queste parole del Signore correva il nostro pen­siero, mentre porgevamo il nostro atto di venerazione alla nuova Beata. La prima impressione che la sua vita offre al nostro sguardo, abituati, come tutti siamo, a osservare e misurare gli uomini secondo la loro statura nel contesto storico e sociale, è quella della piccolezza. Qual è la sua storia? Si dura fatica a rintracciarla e a descriverla per la scarsezza di dati di cui si compone, per un primo motivo, quello della brevità del suo sog­giorno terreno di soli ventitré anni.

Ed altro limite riscontriamo in Clelia nella scena umana in cui quella vita si svolge: l'umiltà dell'am­biente, quello di una modesta ed ignota parrocchia rurale, le Budrie di S. Giovanni in Persiceto.

Ma un'altra impressione succede, quella della sco­perta. Avviene spesso nella vita dei Santi. I titoli della loro vera personalità bisogna scoprirli, e perciò biso­gna cercarli. Quelli che credono che la santità abbia come manifestazione ordinaria il miracolo, spesso si illudono. Il miracolo potrà verificarsi, e costituire il segno di virtù e di carismi straordinari, e quindi di san­tità meritevole di speciale onore e di fiducioso credito. Ma questa santità dev'essere cercata in altre sue mani­festazioni, le quali esigono nell'osservatore particolari condizioni di spirito, che sono poi quelle che da un lato rendono a lui benefico il culto dei Santi e dall'altro lo giustificano; cioè dev'essere cercata nella somiglianza, che il Santo riflette su di sé, di Cristo, il modello, il maestro, il vero santo.

E allora pare a noi di riudire la voce del Signore fare l'apologia dei suoi eletti; ed ora di questa sua fede­lissima Beata; la voce, diciamo, di Lui, rimpicciolito perfino sotto il nostro livello (cfr. Fil 2,7-8), di Lui, fattosi povero quand'era la ricchezza stessa (cfr. II Cor 8,9), diventato, fratello a tutti noi per essersi definito «il Figlio dell'uomo» (Mt 8,20 ss.), e ritenuto social­mente il «Figlio del fabbro» (Mt 13,55); di Lui, che effondendo al Padre l'amarezza e la dolcezza insieme del suo cuore, posto a contatto con gli uomini ribelli e con quelli fedeli, svela il piano segreto della sua rivela­zione: «Io Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascoste queste cose ai dotti e ai sapienti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così ti è piaciuto!» (Mt 11,25-26).

Ecco la sua parrocchiana

Artisti prestigiosi hanno dipinto il ritratto di Clelia Barbieri, ma l'immagine esemplare la delineò papa Montini in questa epifania del 27 ottobre 1968, in cui Clelia «umile, eletta, fedelissima» venne inserita nei ruoli della santità giovane e paragonata al chicco di grano che matura in fretta nei solchi della buona terra.

Intorno al colonnato del Bernini si parlava dialetto con la tipica inflessione persicetana in quella giornata dell'ottobre romano, che segnò un memorabile incon­tro fra la comunità del villaggio e la Chiesa universale. Nella grande abside di S. Pietro insieme con il card. Giacomo Lercaro, già moderatore al Concilio Vati­cano II, e con il card. Antonio Poma, suo sucessore nella cattedra petroniana, spiccavano le Minime del­l'Addolorata e i parrocchiani delle Budrie: fra essi, radioso, don Ugo Bravi. Rivolgendosi a lui il ponte­fice indicò con la mano la nuova Beata in gloria: «Ecco la sua parrocchiana!».

Nell'abbraccio al pastore delle Budrie Paolo VI ricompensò i vecchi parroci di Clelia Barbieri – don Giuseppe Setanassi e don Gaetano Guidi - che ave­vano guidato la comunità attraverso il turbine: il colera del 1855, il tramonto dello stato pontificio nel 1859, le repressioni di Crispi nel 1866, i moti del maci­nato nel 1869: parroci di campagna, magnifici sacer­doti, ottimi pastori, educatori di santi.

Si rinnnovano i prodigi

Madre Clelia oggi è conosciuta, amata e invocata in tante parti della terra. Si rinnovano i prodigi. È il caso di Liana Stefanutto, che nel giugno 1982 si trovava all'unità coronarica del S. Orsola, sotto «monitor», già dichiarata irrecuperabile per un «lupus eritematoso sistemico», complicato da una gravissima sindrome cardio-respiratoria. Morire a 22 anni: è la sentenza inesorabile.

Le risorse mediche sembravano urtare contro un muro. Qualcuno allora suggerii di pregare la B. Clelia, applicando sul cuore la reliquia. Fu il vescovo ausi­liare Benito Cocchi. Liana, ridotta a 30 chili, si riprese nel giro di 24 ore. Ricominciò a mangiare; a sorridere. Tre anni dopo, il 4 maggio 1985, si sposerà con Carlo Zilli nella sua chiesa di Flambruzzo di Rivignano (Udine).

Mentre Liana si riconcilia con la vita, a Wadakan­chery si è appena aperta la prima casa del Kerala in diocesi di Trichur. Suor Maria Rosa e le compagne indiane hanno portato con sè una reliquia ex ossibus della fondatrice, e un po' di terra delle Budrie per deporla nelle fondamenta con la prima pietra. Manca il cemento, manca l'acqua, manca la luce... La Provvidenza interviene. Si invoca l'intercessione della B. Clelia e di S. Francesco da Paola, in ginocchio, sulla terra arida. Zampilla l'acqua da cui si ricaverà il pozzo artesiano. Ne parla la stampa locale. E' una vena lim­pida e gustosa, inesauribile, a cui attinge anche la gente dei dintorni.

Oltre gli argini del Samoggia

La devozione popolare si fa più diffusa e condi­visa. Si inaugurano targhe stradali, dedicate a «Clelia Barbieri religiosa educatrice», si erige una parrocchia alla Cavazzona di Castelfranco Emilia con il titolo della Beata Clelia. Lo stesso avviene in Africa a Uso­kami, dove il 12 ottobre 1985 il card. Biffi, arcive­scovo di Bologna, accoglie nella povera casetta di fianco alla missione cinque aspiranti Minime tanza­niane: Monika, Rehema, Alfonsina, Luisa, Yuditha.

Ben oltre gli argini del Samoggia, le Minime toc­cano ora le isole lontane, secondo la predizione di Clelia. Le carrozze approdano alle Budrie dal conti­nente nero e dall'India, la culla del mondo.

 
Vederti santa

Il 22 maggio 1712, festa della SS. Trinità, Cle­mente XI iscriveva nel calendario della Chiesa univer­sale Caterina de' Vigri (1416-1463). Per tutti, la «santa». Da allora la diocesi petroniana non ha più conosciuto una simile giornata: il «Proprio» bolo­gnese registra una gloriosa serie di beati dal 1300 in poi; ma, al di fuori della clarissa del Corpus Domini, nessun membro della Chiesa locale ha raggiunto la canonizzazione. Sarà l'umile bracciante delle Budrie a toccare l'altissimo traguardo dopo oltre due secoli.

Torna all'animo con indicibile emozione la domanda della piccola Clelia: «Dimmi, mamma, come posso farmi santa?». Imelde Becattini, verbaliz­zando questo interrogativo, parla di «santa inge­nuità»; ma è una espressione carica di forza profetica.

La pastorella di Pibrac

In quegli anni calamitosi Pio IX esercitò il carisma della consolazione innalzando agli onori dell'altare mirabili figure, fra cui Germana Cousin, beatificata il 7 maggio 1854 e santificata il 29 giugno 1867.

Se, come era consuetudine, i parroci ne diedero notizia negli avvisi domenicali, è legittimo pensare che l'incantevole vicenda della pastorella di Pibrac sia giunta all'orecchio di Clelia Barbieri. Quella giovane tolosana che un biografo chiama «fanciulla senza importanza», non può non aver colpito chi in certo modo viveva una storia parallela. Handicappata della mano destra, privata in tenera età della propria madre, Germana visse in estrema povertà. Al ritorno dai pascoli trovava riposo sopra un letto di sarmenti. Su questo sfondo, reso ancor più dolente da guerre di religione e da scontri sociali, si svolge un racconto che almeno in due occasioni splende di luce prodigiosa: il cammino a piedi nudi sul torrente Courbet, e i pani mutati in fiori nel grembiale aperto sulla neve...

Una nota specifica la accomuna alla ragazza delle Budrie: Germana parlava di Dio e della Vergine ai propri amici delle campagne, comunicando loro ciò che aveva appreso nella catechesi parrocchiale; e ogni giorno andava a Messa, affidando il suo gregge al divino pastore.

La trovarono morta, a 22 anni, un mattino d'estate del 1601. La Chiesa di Francia, agli inizi del secolo XX, la proclamò patrona della Gioventù rurale.

La risposta tanto attesa


«Mamma, come posso farmi santa?»... Ci è nota la domanda: non la risposta. Forse Giacinta Barbieri si asciugò le lacrime e rimase muta, volgendo lo sguardo stupito e commosso alla sua primogenita.

La risposta verrà molto più tardi nel clima ardente della «inspirazione granda» del 31 gennaio 1869. Il dialogo non è più con la madre ma con lo sposo Gesù, che scioglie così l'interrogativo dei verdissimi anni: «... La speranza che ho di vederti santa è straordina­ria».

Il grido di Clelia - «Amate Iddio!» - ha il valore di un solenne Te Deum, a cui farà eco tutta la plebs sancta, nel momento in cui Giovanni Paolo Il pronun­cerà la formula di canonizzazione:

«Ad onore della Santissima Trinità, per l'esalta­zione della fede cattolica e l'incremento della vita cri­stiana, con l'autorità del Nostro Signore Gesù Cristo, dei santi apostoli Pietro e Paolo e Nostra, dopo aver lungamente riflettuto e invocato l'aiuto di molti nostri fratelli nell'episcopato, dichiariamo e definiamo santa la beata Clelia Barbieri di Bologna, la ascriviamo all'albo dei Santi e stabiliamo che in tutta la Chiesa sia devotamente onorata tra le sante Vergini».

 
Preghiera del catechista

Padre della luce, ascolta la preghiera, che ti rivolgiamo come evangelizzatori e catechisti, a cui è affidato il compito di annunciare la Parola che salva

e di educare alla fède. Donaci lo Spirito di sapienza che guidò Santa Clelia alla conoscenza del mistero nascosto ai dotti e agli intelligenti e rivelato ai piccoli.

Fa' che diveniamo anche noi alla scuola di Cristo, Maestro e Sposo della Chiesa, autentici operai del Vangelo per dire a tutti, più con la vita che con le parole: «Amate Iddio, perché è grande e buono!».

Se la coscienza dei nostri limiti ci fa tremare di fronte a una missione così grande,

la tua divina misericordia, di cui Clelia Barbieri ci è messaggera e testimone, ci dà fiducia di poter collaborare, in semplicità e letizia, alla crescita del tuo popolo. Per Cristo nostro Signore.
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