«Ti rendo lode, o Padre Signore del cielo e della terra, perché hai
nascoste queste cose ai dotti e ai sapienti, e le hai rivelate ai
piccoli. Sì, Padre, perché così è piaciuto a Te!» Mt 11-25-26
Vera, incarnata, credibile
L'esperienza umana e cristiana di Clelia Barbieri conserva a
distanza di oltre 100 anni una freschezza straordinaria. Questa
ragazza persicetana, vissuta fra il 1847 e il 1870, è vera,
incarnata, credibile. Parla come noi, lotta con noi, ci accompagna
nel cammino.
Clelia è una santa giovane, non conformista, abbastanza scomoda per
chi la guardi non soltanto come figura da ammirare e da pregare, ma
anche come modello da imitare e da vivere.
La sua vicenda appartiene alla cosidetta storia minore, al Vangelo
della vita nascosta, fatta non tanto di battaglie, di trattati, di
manifestazioni di massa, quanto di episodi feriali, a dimensione
umana, localizzabili nel piccolo mondo di provincia. Tutte cose che
apparentemente non fanno notizia; ma prese insieme portano in sé una
novità inesauribile.
La fatica di vivere, la fame di giustizia, la fede dei miti e puri
di cuore, lo sforzo di crescere insieme, la lieta disponibilità al
servizio, l'entusiasmo che animò le giovani generazioni, il ruolo
guida di un gruppo di ragazze delle Budrie, in un tempo in cui la
media della vita non superava i 33 anni: ecco le linee della nostra
storia.
La santa delle Budrie fa parte della categoria più depressa della
sua epoca, i braccianti; e cioè quella larga piattaforma di
lavoratori che migrano di villaggio in villaggio in cerca di un
minimo spazio vitale. È gente che non sa leggere né scrivere, non
vota, non conta; eppure partecipa intensamente alla realtà di paese
e risente nella carne e nell'anima tutto quello che si compie ai
vertici della società.
Gusmini, il primo biografo
Al di fuori della piccola cerchia di amici - i compaesani, le
Minime dell'Addolorata, il parroco delle Budrie - pochi, fino
all'inizio del secolo XX, conobbero Clelia Barbieri.
Il suo scopritore fu il card. Giorgio Gusmini, arcivescovo di
Bologna dal 1914 al 1921. Egli capì che in questa ragazza, passata
così in fretta sulla scena del mondo, c'era qualcosa di
autenticamente evangelico; e divenne il suo primo biografo. Lo
coadiuvò suor Imelde Becattini, che intorno al 1908 aveva steso una
memoria in un quadernetto di poche pagine.
Suor Imelde sapeva decifrare la calligrafia quasi illeggibile
dell'uomo che papa Giovanni XXIII, suo conterraneo, definì «ornato
di genialità sorridente, a volte ingenua e pur sempre posta al
servizio di nobili cose, fisionomia schietta di figlio della Val
Seriana». Grazie a lui la figura di Clelia Barbieri fu tirata fuori
da 50 anni di silenzio e sviluppata come un negativo fotografico
nella camera oscura della memoria. Sul finire del 1916, quasi ogni
settimana, il cardinale andava alle Budrie. Anche in giornate di
pioggia e di neve si tratteneva a lungo con i testimoni viventi:
voleva sapere tutto, rovistare tutto... Sedeva con semplicità sul
telaio per la filatura, nella loggia della casa madre, e annotava
parole e fatti.
Uscirono così nel 1917 gli «Appunti storici» su Clelia Barbieri. Un
merito incontestabile. Il tribunale che fa i santi aveva in mano il
libro del Gusmini, quando dichiarò che Clelia era degna di tener
compagnia ad altre sante bolognesi, come Imelde Lambertini,
Caterîna de' Vigri, Elena Duglioli.
Ma c'erano ancora tante cose sepolte negli archivi alle Budrie, a S.
Giovanni, a Bologna. A questa fonte ancora intatta attinse intorno
al 1970 l'autore del presente racconto, nel corso di un'attenta e
affettuosa indagine sui documenti, col sostegno dei 5 volumi
manoscritti del processo informativo diocesano e apostolico.
Nonno Sante canapino
Accanto a Clelia emergono altre figure: il canapino Sante Barbieri,
i parroci don Giuseppe Setanassi e don Gaetano Guidi, il maestro
Geremia Neri, il medico Zeffirino Nanetti, l'erede spirituale Orsola
Donati, la cuciniera Anna Forni, il balbuziente Celestino Cocchi,
l'orfana Maria Ferrari, il vecchio dalla barba bianca...
Si ricostruisce così un quadro della periferia persicetana del
1800, nel periodo travagliato e complesso fra l'ascesa al
pontificato di Pio IX e la breccia di Porta Pia. Sono anni di rapida
e tumultuosa evoluzione: guerre, sussulti sociali, trapassi
storici, con tutte le componenti economiche, politiche, culturali
che determinarono il futuro del nostro paese.
Clelia è lì dentro, a prima vista quasi impercettibile; poi cresce
in maniera sorprendente e assume proporzioni di grande rilievo.
La nostra protagonista appartiene al proletariato rurale.
Esiste nei cartoni dell'archivio parrocchiale di S. Giovanni in
Persiceto un elenco del 1853 di tutte le famiglie povere del Comune,
per la distribuzione della farina gialla durante le feste natalizie.
Alla famiglia di Sante Barbieri e Rosa Zanasi, nonni di Clelia,
toccarono 10 libbre: due a testa. Tenendo conto che la libbra
equivaleva a circa 322 grammi, sono tre chili e duecento venti: una
discreta polenta attaccata all'albero di Natale!
Più avanti, nel 1858, nell'archivio delle Budrie, c'è una lista di
offerenti per il nuovo campanile con tutte le categorie del paese: i
possidenti, i partecipanti, i contadini, gli artigiani, i
braccianti.
Nonno Sante, capo-famiglia dei Barbieri e unico uomo della casa dopo
la morte del figlio Giuseppe, fa parte dei braccianti di II classe,
e non è in grado di offrire nemmeno pochi baiocchi, mentre Zeffirino
Nanetti, zio materno di Clelia, offre la cospicua somma di 30 scudi
romani.
Questo dato non farebbe notizia, perché erano 129 le famiglie povere
delle Budrie; ma Clelia porta nella sua nascita un segno di
contraddizione: il padre è nato povero, la mamma invece apparteneva
alla prima famiglia del paese, che ha case, poderi, e registra tra
i propri membri un medico, il dott. Zeffirino. Avere una laurea a
quei tempi, costituiva un titolo favoloso, tanto che medici e
avvocati erano denominati eccellentissimi.
Il contrastato amore di papà e mamma
Nella famiglia del nonno materno, l'anziano signor Pietro Nanetti,
c'erano tre maschi - Zeffirino, Zenobio, Zaccaria (Zosimo era morto
a 26 anni nel 1831) e due femmine, Giuseppina e Giacinta.
Probabilmente nei piani familiari Giacinta doveva restare zitella,
accanto alla vecchia madre; ma lei si ribella al ruolo di nubile
benestante e, intorno al 1840, s'innamora del servo del dott.
Zeffirino, Giuseppe, nato a Manzolino il 10 ottobre 1822, sesto ed
ultimo dei figli di Sante Barbieri.
Tra il giovane piccolo e mingherlino e la signorina Giacinta, c'è
un'intesa a distanza di età e di condizione sociale. È un amore
puro e profondo che fa sensazione nell'ambiente quieto e stagnante
delle Budrie: Giuseppe ha sette anni meno di Giacinta, ed è povero
in canna!
Avviene che il servo è licenziato e la ragazza tenuta sotto chiave;
però gli anni dal 1842 al 1846 non riescono a spegnere il fuoco e
l'idillio si conclude il 27 aprile 1846, di lunedì, con il
matrimonio celebrato dal parroco don Giuseppe Setanassi. Il
consenso, invece, era stato preso il giorno di Pasqua e siglato da
entrambi i contraenti con la croce.
Le donne d'oggi possono guardare a Clelia con viva simpatia, specie
alla Clelia matura che realizza la sua opera di promozione umana e
culturale a favore delle ragazze del paese; simpatia non soltanto
religiosa ma anche sociale, perché a quel tempo le donne erano
senza voce attiva nell'edificazione della vita pubblica e senza il
prestigio della cultura. Ricamavano, cucivano, filavano, ma non
tenevano in mano né la penna né la scheda elettorale.
Il matrimonio contro corrente crea una rottura fra i Nanetti e i
Barbieri. Giacinta se ne va a stare in casa di nonno Sante e di
nonna Rosa. Dal nuovo nucleo familiare nasce Clelia, il 13 febbraio
1847; tre anni dopo Ernestina, che morirà a 32 anni, dopo essersi
sposata con un muratore del Martignone, Alfonso Maccaferri.
Chi facesse il confronto tra i figli di Giacinta e quelli della
sorella Giuseppina, sposata in Vecchi, troverebbe un divario
vistoso. Luigi, Carlo, Massimiliano, Anna, Virginia, Rachele,
Carlotta vivono nella agiatezza; Clelia ed Ernestina conoscono una
precoce fatica. Nondimeno Giacinta ci teneva che le sue figlie
fossero eleganti; le pettinava con la riga nel mezzo della fronte e
le vestiva sempre di bianco.
Il colera del 1855
Per un quinquennio, nella casa del pigionante Sante Barbieri, c'è
una grande pace. Sono anni felici, da poveretti. Una prima ombra
passa su quella limpida gioia il 29 giugno 1853. Muore a 70 anni
nonna Rosa. Poi, nel 1855, scoppia il colera.
Su questa calamità si sono scritti fiumi di inchiostro. A Bologna e
provincia, su un totale di 567.795 abitanti, si ebbero 19.916 casi
di colera, con 12.242 morti. Nel persicetano gli affetti dal cholera
morbus furono 687, con 427 morti; alle Budrie 79 i colpiti e 47 (o
46, secondo le fonti) i deceduti per il morbo asiatico, come lo
definisce il libro dei morti.
Il papà di Clelia è uno dei primi a subire il contagio: muore di
una forma fulminante. Forse si è alzato come al solito per andare al
lavoro, e alle 2 del pomeriggio si è spento fra dolori atroci. Era
l'11 luglio 1855.
Alcuni aspetti esterni possono rendere l'atmosfera di quei giorni.
I morti erano portati in fretta al cimitero, quasi clandestinamente,
e sepolti in una buca profonda con due quartiroli di calce sulla
bara. In mezzo ai campi di notte bruciavano i pagliericci. Ci fu una
protesta scritta da parte degli ospiti del ricovero di S. Giovanni,
perché i pagliericci che ardevano nella notte creavano una cupa
visione che li sgomentava. Non si suonavano le campane a morto per
non intimorire la gente.
Si distrussero le melonaie, ritenute responsabili del sintomo
dissenterico con cui si manifestava il colera. Si verificò un esodo
dai grossi centri, come noi lo ricordiamo negli anni dell'ultima
guerra mondiale: andavano a stare in luoghi remoti per sfuggire al
morbo. Verso la fine del 1855, al termine del colera, ci fu una
ripresa festaiola, perché il pubblico della città e del contado
voleva cancellare il ricordo del calamitoso evento.
Nella povera stamberga dei Barbieri è rimasto un uomo di 75 anni,
nonno Sante, che lavorerà fino agli 80, ora del suo congedo; mamma
Giacinta, ormai quarantenne; Clelia di 8 anni, Ernestina di 5.
Il maestro del villaggio
Anche il maestro delle Budrie, Geremia Neri, colpito dai primi
sintomi del male, il 20 ottobre - forse nella stessa aula scolastica
adiacente l'abitazione - si era messo a letto con quel senso di
indicibile oppressione che i medici chiamavano «cingolo colerico».
Con la forte fibra contadina lottò per 13 giorni, finché il dott.
Zeffirino Nanetti lo dichiarò fuori pericolo. Non fa meraviglia che
al suo ritorno a scuola, col volto segnato e con la bella voce
spenta, sulla fine di novembre, gli alunni lo guardassero come un
fantasma. Tutto il paese si congratulò sinceramente con lui, con la
moglie Angela Biondi e con le cinque figlie.
Il maestro pubblico di San Bartolo aveva 60 anni suonati e 26 di
onorata carriera. Tutti lo consideravano ormai un'istituzione:
consultato come un oracolo da poveri e benestanti, collaboratore
dei parroci, segretario di tutte le opere e confraternite, capo
degli operai della dottrina cristiana, era come l'ago della bilancia
nella comunità delle Budrie.
La casa del maestro
Il regolamento delle scuole comunitative, quando la casa adibita ad
uso scolastico si affacciava alla pubblica via, faceva obbligo ai
maestri di esporre un'insegna che indicasse l'esistenza della
scuola. Di qui il titolo divulgato di «casa del maestro» dato alla
residenza di Geremia Neri. È presumibile ancora che sulla porta di
quella bicocca sapienzale campeggiasse lo stemma dell'arcivescovo
Oppizzoni, dalla scritta longanime «omnia cum tempore».
In tutto il comune si contavano cinque scuole elementari maschili;
e due scuole superiori: una di latinità e l'altra di umanità e
retorica, secondo l'indirizzo un po' aulico in vigore prima
dell'unità d'Italia. Alla scuola elementare delle Budrie, che apriva
i battenti il 5 ottobre, convenivano ragazzi da S. Maria in Strada,
da Tivoli, da Castagnolo, da S. Giacomo del Martignone; si
raccoglieva così una piccola popolazione scolastica dai 50 ai 70
alunni. Non era raro, dati i tempi, che nella classe dei
principianti sedessero alunni di 10 anni e più. Per l'ambito
femminile l'analfabetismo era la norma. Il vuoto d'iniziativa
pubblica fu in parte colmato dalle scuole della Provvidenza,
trapiantate nel persicetano dal can. Rinaldo Pancerasi, dopo le
positive esperienze realizzate altrove; e dalle scuole notturne o
domenicali promosse da mons. Giuseppe Bedetti fin dal 1838 per la
città di Bologna, a favore degli strati più poveri e depressi del
popolo, poi diffuse in tutta la diocesi.
Se, nell'insegnamento superiore a S. Giovanni in Persiceto, emergeva
fra tutti il lughese Gianfrancesco Rambelli, ragguardevole figura di
erudito e di poligrafo, alla base della piramide scolastica
spiccava Geremia Neri, luminare della povera gente.
A metà strada
La prova ha accentuato la precocità di Clelia. La sua età
psicologica è assai superiore a quella anagrafica. L'esperienza,
profonda e marcata dal dolore, ha determinato sia fisicamente che
interiormente una straordinaria maturità.
Questo carattere si manifesta la prima volta, in maniera netta,
nella prima Comunione, il 24 giugno 1858, un anno dopo la visita di
Pio IX a S. Giovanni in Persiceto.
L'impronta eucaristica
Il 1858 risultò memorabile per la parrocchia delle Budrie. Vi fu la
missione per l'acquisto del giubileo; e, il 17 giugno, la visita
pastorale del card. Michele Viale Prelà con la Cresima, a cui fu
ammessa anche Ernestina. Poi, una settimana dopo, il primo
banchetto eucaristico che doveva segnare di un'impronta
incancellabile l'anima della nostra protagonista.
Clelia ha 11 anni. È a metà del cammino. La comunità intera respira
la grazia di quel giorno e di quell'anno santo, ma Gesù-pane di vita
eterna ha per l'orfana di Giuseppe Barbieri un dono e una luce
particolare.
Fu toccata nell'intimo, tanto che all'uscire di chiesa con le sue
amiche dal velo bianco (e fra queste l'inseparabile Violante
Garagnani) ebbe una reazione imprevedibile. Passò dalla gioia grande
a uno scoppio di pianto, corse a casa e si buttò ai piedi
dell'immagine di Maria che era sull'altarolo di cucina.
Cosa avvenne in quel momento? Suor Imelde lo dice con tutta
semplicità: Clelia visse la prima esperienza mistica.
Purificata da una contrizione intensa - ma che peccati poteva
piangere? - e illuminata da un raggio interiore, ebbe l'intuizione
globale del suo futuro nella duplice linea contemplativa e attiva.
Vide avanti, limpidamente.
Seguono anni di rapida crescita. Questa piccola anima si allunga e
si espande, acquistando quella fisionomia spirituale e apostolica
che oggi è il segno della sua gloria.
Complice, per così dire, di questa maturazione, oltre il lavoro
segreto dello Spirito Santo, è una guida sacerdotale - il parroco
don Gaetano Guidi, succeduto all'ardente Setanassi, spentosi un
anno dopo il colera - e una fraternità giovane, inserita nella
comunità di paese come lievito nella pasta: Clelia, Teodora Baraldi,
Violante Garagnani, Adelaide Cocchetti.
Il curatino delle Budrie
Un ruolo di prim'ordine in questa invenzione di santità spetta
appunto a don Gaetano Guidi, tipo sobrio e discreto, quasi agli
antipodi dell'impeto romagnolo del suo predecessore. Un efficace
biglietto da visita è il tema del suo esame di concorso per la cura
d'anime delle Budrie, che lo vide designato con tutte fave bianche:
«Questa generazione malvagia e adultera cerca un segno e non le sarà
dato altro segno che quello di Giona profeta» (Mt 16,4).
Il segno di Giona, simbolo della passione e risurrezione di Cristo,
è la nota distintiva del pastore che contribui in maniera decisiva a
scoprire il disegno di Dio e a plasmare la prima Minima
dell'Addolorata.
Umile, silenzioso, antidivo, don Guidi veniva da una grande scuola.
Suo maestro e ispiratore era stato il parroco di S. Martino di
Bologna, don Antonio Costa, una delle figure eminenti dell'epoca:
biblista, catechista, fondatore della S. Vincenzo maschile e
femminile, assistente del circolo San Petronio prima espressione
della società giovanile dell'A.C. promossa da Giovanni Acquaderni.
Da lui attinse a piene mani il consiglio, l'esempio, le idee;
l'incontro poi con Clelia lo rivelò a se stesso e agli altri, tanto
che, specie negli anni 1866-1868, vediamo un don Guidi inedito:
fiero, combattivo, tenace, con una fiamma insospettata che denuncia
il pastore di genuina tempra e l'uomo di Dio.
Gli operai della dottrina cristiana
Con questa denominazione venivano registrati i catechisti: «operai»
nel senso evangelico, «braccianti e artigiani» della educazione alla
fede. La voce risale almeno al '500 e indica un preciso servizio
assunto con carattere di stabilità. Oggi si direbbe «lettori»,
termine che esprime il ministero di chi si impegna a tempo pieno
nell'annuncio del Vangelo.
Una lapide del '700, alla Certosa di Bologna, segnala un certo
Giorgio Pezzoli come «operaio della dottrina cristiana», quasi a
fissare nel marmo una scelta di vita e una credenziale per il
giudizio di Dio. Pure Clelia fu operaia della dottrina cristiana, e
lo fu a tempo pieno, con quello che diceva e con quello che era.
Intorno a lei, a poco a poco, la catechesi delle Budrie fece un
salto di qualità; diventò scuola di vita e vivaio di vocazioni.
Molte di quelle ragazze che a 13-14 anni si erano inserite nella
squadra di catechismo, prima come sottomaestre, poi come titolari
della classe dei principianti o dei comunicandi, si votarono per
sempre a Cristo nel servizio di preghiera e carità.
Occorrerebbe una riflessione molto attenta su questo movimento
catechistico, perché è qualificante per la fioritura di doni e di
carismi che segnano una straordinaria primavera nella comunità
ecclesiale.
Quando Clelia fu cooptata tra le sottomaestre di catechismo, la
misero in fondo all'elenco, quasi ultima ruota del carro, perché
scarsamente alfabetizzata. Poi emerse dal gruppo e rivelò una
insospettata capacità di comunicare anche per iscritto. Gli stessi
anziani si facevano scolari di questa giovane maestra afferrata
dallo Spirito. Ne rimanevano commossi e incantati.
Arrivò a familiarizzarsi con i libri. Pochi e scelti. Una biblioteca
da mettere nella madia insieme con il pane. La tradizione accenna
qualche titolo: La pratica di amar Gesù Cristo di S. Alfonso, la
Filotea del Riva. Si conservano ancor oggi a Le Budrie. Un testo
soprattutto esercitò su di lei un influsso decisivo: la «Dottrina
cristiana elementare», promulgata dal card. Viale Prelà nel 1860.
Questo opuscolo tascabile, memorizzato, insegnato, testimoniato, fu
per lei il sillabario, il manuale ascetico, il dizionario.
C'era anche un piccolo canale di periodici e di opuscoli che
alimentava a ritmo costante le biblioteche parrocchiali. A questa
fonte di aggiornamento dovettero attingere Clelia e le compagne.
Così ai piedi degli alberi, nella sosta meridiana; e lungo gli
argini del Samoggia, la sera, le quattro amiche leggono, conversano
e danno vigore ai loro sogni adolescenti. Nasce l'idea di un nucleo
di vita contemplativa e apostolica, e di un servizio di carità che
scaturisce dall'Eucaristia consumata all'altare della comunità di
paese, frutto non tanto di una scuola di spiritualità o di una
tradizione monacale, ma del germe che il divino seminatore nasconde
di buon mattino nei solchi della buona terra, bagnati di sudore e
di fatica.
Bellezza intensa e radiosa
Nel volto di Clelia splende quell'idea di bellezza femminile, che è
tipica della scuola pittorica bolognese da Vitale, a Guido Reni, a
Ludovico Carracci, a Giuseppe M. Crespi. Una bellezza intensa e
radiosa.
Non c'è da stupirsi che qualche giovane del paese, magari la
domenica dopo la Messa, abbia alzato gli occhi su di lei. «Giunta
all'età di 17 anni - dice suor Imelde - vi furono giovani che avendo
una grande benevolenza e rispetto, aspirarono di congiungersi con
lei in matrimonio». Ebbe alcune proposte. Massimiliano Vecchi, suo
cugino? Antonio Mezzetti, figlio del falegname? Il benestante
Francesco Zambonelli?
Difficile dirlo con certezza. Si sa che in questi casi la ragazza
aveva la battuta pronta: «Io non mi sposo. Andate da mia
sorella...». La frase fece il giro del paese, tanto che se ne parlò
alla bottega delle Caselle, dove Clelia andava a fare la spesa.
Ma a qualcuno che di fronte al no risoluto deve aver chiesto di più,
Clelia diede la motivazione vera. Lo riferisce Enrico Marchesini:
«So che fu chiesta da un giovane del posto, ed essa rifiutò non per
motivi umani, ma unicamente per essere tutta del Signore».
La grande prova
II 1866 è un'anno cruciale. Da 7 anni è tramontato lo stato
pontificio; il nuovo stato unitario italiano cerca il suo assetto
con una gestazione travagliata e difficile, non priva di pagine
oscure e penose.
Ha detto papa Giovanni: «La storia tutto vela e tutto svela». A
distanza di un secolo si constata che il tramonto del potere
temporale è stato un bene; e lo svincolo da certe responsabilità
terrenistiche ha reso l'azione pastorale della Chiesa più sciolta,
aperta, universale; ma nel 1859 e negli anni che seguirono ci fu un
difficile taglio del cordone ombelicale fra i due poteri.
Le leggi Crispi e Siccardi
I massimi nodi vennero al pettine nel 1866. È l'anno della III°
guerra d'indipendenza, l'anno della legge Crispi detta dei sospetti,
l'anno della estensione a tutto il regno delle leggi Siccardi per la
soppressione degli Ordini e Congregazioni religiose.
A S. Giovanni in Persiceto sono soppressi i francescani; nel loro
convento prende alloggio la guardia nazionale e la loro chiesa è
ridotta a magazzino. Nel territorio, tra maggio e giugno, passano
divisioni in assetto di guerra che vanno al fronte. E, intanto,
scatta la legge Crispi, che autorizza i prefetti a mettere agli
arresti senza processo le persone ritenute sospette o comunque
contrarie al nuovo corso: una legge d'emergenza, che l'on. Ricciardi
in parlamento non esitò a definire peggiore delle leggi borboniche.
La polizia entrava nelle case, perquisiva, arrestava al mattino
presto o di notte i personaggi ritenuti sospetti su basi indiziarie
o presunte. Fra i colpiti dalla legge Crispi ci furono una
cinquantina di sacerdoti bolognesi. Li allontanavano dal gregge e li
spedivano a Savona, Alessandria, Cuneo, perché la loro presenza era
ritenuta negativa per lo spirito della patria in armi. Fu arrestato
fra gli altri il parroco di S. Martino, don Antonio Costa; e, 27°
nella lista, don Gaetano Guidi, che fu trattenuto in carcere dal 22
giugno al 16 luglio.
L'allontanamento dei pastori fu uno dei segni più clamorosi dello
stato di tensione fra la Chiesa e le autorità dello Stato; un acuto
malessere si diffuse dovunque, tanto che alcuni sindaci, come quelli
di Budrio e di S. Giorgio di Piano, fecero presente al prefetto
l'allarme e la costernazione del popolo.
A S. Giovanni, nell'estate del 1866, la Collegiata fu occupata per
un certo periodo ad uso militare. Cosa inaudita per un paese che
appena ventotto anni prima Gregorio XVI aveva insignito del titolo
di città.
La notte oscura
Non riferiremmo questo momento di crisi storica, se non vi fosse una
diretta connessione con la sofferenza intima di Clelia. È il tempo
delle ansie e desolazioni di spirito, da cui si riprende per
visibile intervento di Dio. Queste prove diventano una tappa
essenziale della sua assimilazione al Cristo crocifisso e risorto.
Leggendo la «Notte oscura» di S. Giovanni della Croce, si nota quasi
una coincidenza letterale fra questo faticoso itinerario spirituale
e la vicenda della ragazza delle Budrie. Il profondo travaglio di
Clelia Barbieri deve interpretarsi come il riverbero sulla sua anima
sensibilissima e sulla sua stessa resistenza fisica del dramma del
popolo e dei suoi pastori. Figlia della Chiesa bolognese riceve in
pieno petto questi colpi che danno un quadro di eccezionale
sofferenza comunitaria.
Quando don Guidi tornò al paese, fu una festa. Campane a distesa e
clamorosa dimostrazione popolare. Il curatino, così lo chiamavano,
scese di carrozza; e, indirizzandosi alla sua gente, disse in
dialetto: «Adess a son un galantom».
Queste parole, riferite da testi oculari, pur nel riserbo abituale
di don Guidi, vibrano di dignitosa fierezza e rivelano dolorosi
retroscena.
All'inizio del 1867, Clelia ha improvvise tachicardie e sbocchi di
sangue di chiara provenienza tbc: sono sintomi di un morbo che la
minava fin dalla prima infanzia ed assume ora una forma galoppante.
Nel corso di questa malattia, Orsola le toglie di dosso la catenella
di ferro a maglie larghe e sottili, e il ritaglio di cuoio a forma
di cuore con quattordici punte aguzze, che in certi tempi usava con
l'obbedienza del confessore: un'ascesi rimasta sconosciuta agli
intimi.
Questi oggetti erano puri strumenti di penitenza, oppure nel loro
rude simbolismo esprimevano una più precisa intenzione? Il cuore a
punte potrebbe collegarsi con l'esperienza di S. Leonardo da Porto
Maurizio, un santo molto popolare nel contado bolognese, il quale
nei suoi «Proponimenti» scriveva: «Porterò ogni giorno e anche la
notte una croce sul petto con sette punte... per avere un memoriale
continuo, vicino al cuore, del Cuore addolorato della Santa Vergine
Maria».
Dopo mesi di alternative, la malata rapidamente declina. Riceve il
viatico; suonano l'agonia... Ma poi si ridesta e volgendosi alla
mamma dice: «Perché piangete? State tranquilla. Questa volta il
Signore non mi prende. Vuole qualche altra cosa da me».
Inchiesta Cornero
Rapidamente ristabilita Clelia cambia chiave e procede libera e
serena, attraverso dure difficoltà, come una freccia nelle mani del
guerriero. Deve attuare quel «qualcosa» che Dio vuole da lei e che
si è delineato chiaramente al termine della grande prova. Ottiene
un'adesione preziosa da una ragazza che abita dall'altra parte del
Samoggia verso S. Maria in Strada, Orsola Donati, che sarà erede del
suo progetto e del suo spirito. Don Guidi dà il benestare. Viene
offerto un piede a terra per la nascente fondazione nella sede della
scuola, rimasta libera per le dimissioni dell'anziano Geremia Neri.
Quando ormai il disegno sta per calarsi nella realtà e il nucleo
giovanile - formato da Clelia, Orsola, Teodora, Violante - è sul
punto di trasferirsi in quella che anche oggi è chiamata la casa del
maestro, si scatena una reazione montante. Chiacchiere,
insinuazioni, aperte opposizioni. I soliti zelanti tacciarono le
ragazze di esaltate e vagabonde, e parole pesanti circolarono sul
conto dell'uomo di Dio che aveva avallato l'iniziativa.
Qualcuno passò parola a Giuseppe Morisi, assesore anziano facente
funzione di sindaco, uomo servile, del quale lo storico di S.
Giovanni in Persiceto, Giovanni Forni, dà un giudizio piuttosto
severo.
Avviene che il Ritiro delle Budrie, progettato con estrema
semplicità e linearità, un'opera di ispirazione evangelica al
servizio delle famiglie più povere del paese, è preso di mira come
un tentativo di ristabilire le Congregazioni religiose che si
volevano sopprimere.
In base al reclamo del Morisi, il prefetto Cornero, a norma
dell'art. 7 delle leggi di soppressione, ordina un'inchiesta che è
contenuta in un consistente fascicolo dell'archivio di Stato, con
lettere del questore Bolis, del sindaco Morisi, del consigliere
Carta Mameli e, a tergo di ogni lettera, le diligenti annotazioni
del prefetto stesso.
Don Guidi difensore dei poveri
Nell'aprile del 1868 l'affare, dopo 6 mesi circa, si sgonfia e vien
dato il nulla-osta al sorgere della prima fondazione di Clelia e
delle sue sorelle, allora denominate figlie di Maria o
dell'Immacolata. Don Guidi torna a casa con il sospirato nulla-osta
una sera di fine marzo 1868, e ne dà l'annuncio sventolando un
fazzoletto bianco dal finestrino della carrozza. Così, il 1 maggio
1868, si inaugura il Ritiro delle Budrie.
Dall'incidente clamoroso e sofferto possiamo dedurre tanti elementi
sulla natura di questa iniziativa, sul suo carattere popolare, sulle
linee di fondo. Abbiamo una misura autentica della statura
spirituale di quelle ragazze e del visibile intervento di Dio, che
si fa garante della fondazione, scudo e baluardo dei miti e umili di
cuore. Dall'affare del 1867-68 balza in piena evidenza l'immagine di
don Guidi che, posto in stato di accusa per il presunto
«concentramento di monache», difende il nascente Ritiro con la
tenacia dell'uomo d'azione e la prudenza del diplomatico. L'uomo che
sale le scale dei potenti per salvaguardare il piccolo germoglio di
bene sorto nella sua comunità parrocchiale, è mosso dallo Spirito di
Dio, che lo riempie di forza e di sapienza: un autentico difensore e
padre del Ritiro delle Budrie.
Nell'inchiesta della prefettura c'è quasi un'autenticazione della
nuova esperienza. Dobbiamo ringraziare il Morisi, perché senza il
suo reclamo saremmo privi di notizie da parte di una fonte
certamente non sospetta; e non disporremmo di un testo che, pur
nello stile burocratico, costituisce una vera e propria credenziale.
Al servizio del popolo di Dio
Il Ritiro si aprì il 1° maggio. Le ragazze entrarono povere e liete,
con una cambiale in bianco sottoscritta dalla divina Provvidenza...
La mattina, dopo la Messa, fecero ingresso nella casa del maestro
Clelia e Orsola; la sera si unirono a loro Teodora e Violante. In
questa entrata a due a due si avverte un richiamo evangelico, ma
anche una precauzione di fronte al finimondo degli ultimi mesi.
In tavola, a cena, ci fu un uovo in quattro. E non mancò fin dal
primo momento un segno di benedizione dall'alto e di solidarietà
paesana. Una bambina di 6 anni, Maria Baroni, bussò alla porta con
quattro pani: «Portali a Clelia tu che le vuoi tanto bene - le aveva
detto la nonna - che abbiano da mangiare questa sera...».
La fondazione esprime l'ideale maturato negli ultimi anni. C'è un
ampio respiro di preghiera, anche al mattino presto e alla notte
tardi, e il cuore aperto a tutti i bisogni della comunità, con un
particolare genio per cogliere i casi più acuti: figli abbandonati,
orfani, malati, anime in crisi.
Clelia sapeva interpretare anche il silenzio, o lo scarso e
inceppato linguaggio dei balbuzienti. Così fu per Celestino Cocchi,
un allievo della classe dei comunicandi, il quale si era
impappinato all'esame di dottrina, come capita agli handicappati
della parola in certe «giornate-no». Don Guidi, che pure era un mite
di cuore, scosse la testa. Il ragazzo non fu ammesso alla prima
Comunione.
C'era dietro una storia di miseria familiare. La mamma era costretta
a mettere il ragazzo a servizio come garzone presso un contadino. La
sera stessa Clelia, recatasi a casa, quando il ragazzo era già a
letto, lo interrogò con tanta arte da renderlo insolitamente
sciolto nel linguaggio. Poté poi attestare al parroco che era
preparato; e così Celestino fece la comunione insieme agli altri.
La solidarietà della povera gente, all'interno dei cortili a cui si
affacciavano le case dei pigionanti, era immediata e istintiva. Quel
poco che era sulla tavola, diviso, si moltiplicava... Clelia, ancora
tredicenne, aveva adottato la piccola Maria Ferrari rimasta senza
mamma. Ogni mattina andava a farle dire le preghiere, la pettinava,
le insegnava a sbrigare le faccende di casa, l'accompagnava a
scuola, e la invitava spesso alla sua povera cena condita di poco
olio e molta carità... Maria, andata sposa a Carlo Gardini, diverrà
madre di un vescovo, mons. Francesco Gardini, e non dimenticherà la
sua giovane madrina: «Quello che so fare, l'ho imparato da lei;
specialmente l'amore verso i poveri!».
Diriamisino e quiete
L'apostolato di Clelia e delle sue compagne è tipicamente
missionario e itinerante. Una disponibilità flessibile e
mobilissima, come conseguenza dell'Eucaristia, vena sorgiva del
loro servizio. Forse dal nonno canapino, che seguiva di casa in casa
nel suo lavoro giornaliero, ha appreso questo apostolato che ha
l'immobilità dell'adorazione e l'estrema mobilità della vita
apostolica.
Esternamente nessuna forma speciale; le ragazze vestono di nero a
pallini bianchi e fanno la vita di tutti: vanno nei campi a
spigolare, filano al lume di lucerna a veglia nelle stalle, e magari
partecipano alla festa del Carnevale in cui i budriesi, in
concorrenza con i personaggi del Carnevale persicetano, Bertoldo e
Bertoldino, portano Sandrone in Samoggia.
Clelia non è la figura segregata nel senso monastico tradizionale,
né lo poteva essere; ma è totalmente immersa nella comunità di
paese: una figura viva, reale, non una di quelle immagini
disincarnate e rarefatte che non si trovano fra la gente di questo
mondo.
Quando giunge alla maturità, è paragonabile a una pianta innestata.
L'humus, le radici, il tronco appartengono alla terra del suo
villaggio, della sua famiglia, del suo cortile, della sua struttura
comunitaria. Ma c'è un germe nuovo, un dato inconfondibile che
viene dall'opera creativa dello Spirito Santo. La storia dei santi
è, nella sua realtà profonda e differenziale, il segno del
passaggio di Dio.
Il minimo romito da Paola
Gli ultimi anni - dal 1 maggio 1868, giorno dell'ingresso nella
casa del maestro, al 13 luglio 1870 - sono pieni di luce. In misura
semplice e campagnola si ripetono i prodigi dell'esodo e della prima
comunità apostolica.
Clelia è come la fontana del villaggio. Ha il cuore liquido, come
dicono. Profetizza. Intuisce i cuori. Smuove montagne indurite nel
male. Consola i morenti.
Tanti episodi fanno sorgere in noi lo stupore evangelico, come il
«fioretto» delle mele rubate e della lampada di S. Francesco da
Paola.
Raccogliamo dalla viva voce di Anna Forni le perle di questo vangelo
dell'infanzia, che segnò i primi passi del Ritiro delle Budrie.
Dice Anna: «Io ero cuciniera e una mattina non avevamo nulla in
casa, neppure per sdigiunare; giacché può dirsi che per lo più si
viveva della provvidenza che Dio mandava giorno per giorno. Mi
presento alla fondatrice con una boccetta che conteneva un po'
d'olio. - Ecco quello che abbiamo oggi: cosa faremo? - Con quel po'
d'olio, rispose, andate e accendete il lume a san Francesco da
Paola».
Il «minimo fra i minimi» era un grande amico di Clelia Barbieri; la
sua immagine con la barba, il cappuccio, lo stendardo dal motto
«Charitas» era in posizione di onore nell'arredo della casa del
maestro. Una lampada perenne vi ardeva anche nei giorni di magra.
La grande cesta della Provvidenza
A malincuore Anna andò ad eseguire l'ordine: «Mi ricordo benissimo
che, mentre accendevo, minacciai con la mano il nostro S. Francesco
dicendo: «Guai a voi, se non provvedete!».
Passarono poche ore e si sentì bussare alla porta. L'umile cuciniera
andò ad aprire. Si presentò un uomo con una grande cesta, colma di
ogni ben di Dio: farina, pane, vino e tante altre cose... Clelia
aveva avuto ragione, come sempre, con quella sua fede semplice,
tale da spostare montagne di miseria e di sfiducia.
La devozione verso il santo da Paola aveva una espressione popolare
diffusa dovunque: i tredici venerdì in preparazione alla festa del 2
aprile, con preghiere che ripercorrevano la storia di questo
calabrese dal miracolo facile, incantevole per la semplicità, sia
che fosse fra i mandriani della sua terra che alla corte di Luigi
XII; l'uomo della quaresima perpetua e pur straordinariamente
longevo (27 marzo 1416 - 2 aprile 1507), eremita per vocazione e pur
risucchiato dai massimi problemi della sua epoca.
Clelia imparò da mamma Giacinta a invocare il «minimo povero romito
da Paola»; non perse l'abitudine quando intorno a lei si
cominciarono a radunare le ragazze, che otto anni dopo la sua morte
presero, con evidente riferimento al santo da Paola, il nome di
Minime.
Quando si trattava di affrontare difficoltà serie o progetti
impegnativi, Clelia si rivolgeva al suo intercessore e patrono con
la «tredicina» tradizionale.
Fu sotto l'immagine del «vecchio dalla barba bianca» che durante la
malattia le apparve il futuro benefattore. Nell'aprile 1869, al
termine dei tredici venerdì, si presentò alla canonica un uomo,
mandato da Vincenzo Pedrazzi, per chiedere informazioni sull'opera
nascente. Di lì venne un flusso continuo di aiuti, dalle tre corbe
di frumento alla edificazione della casa madre.
Tutto era cominciato dai «canapoli», quando Clelia mandò Giuseppe
Garagnani, papà della Violantina, da un contadino del Pedrazzi,
perché gli desse un mazzo di cannarelle di canapa per farne degli
zolfanelli. Il contadino lo mandò dal padrone. Il padrone da don
Guidi. Nacque una provvidenziale amicizia.
Le mele rubate
Un altro episodio - quello delle mele rubate - sa dei libri della
Sapienza e mostra quanto fosse penetrante il discernimento della
ragazza delle Budrie.
«Mia mamma - dice Anna Forni - ebbe l'idea di portare alla Clelia e
alle sue compagne alcune mele; ma vedendo che erano poche, ne
raccolse alcune sotto gli alberi di altra proprietà e ne prese pure
dagli alberi, fuori del proprio campo; tutte insieme le portò alla
Clelia. Questa nell'accettarle, le divise in tre parti e disse: -
Questa parte la tengo, perché l'avete raccolta nel vostro campo;
così questa seconda parte, perché l'avete raccolta sotto gli alberi;
la terza no, perché l'avete rubata».
Quando Clelia parlava così, la guardavano con un sentimento di
tremore. Lo spirito di profezia agiva in lei e le accendeva il
volto...
In quei brevi anni visse molte vite in una sola vita. Il Signore
aveva come condensato in lei molti carismi che avrebbero dovuto
espandersi nel futuro della sua famiglia spirituale: carismi di
luce, carismi di pace, carismi di carità apostolica.
La chiamarono madre
I fatti straordinari non avvenivano tutti i giorni; ma nemmeno tanto
di rado. La Provvidenza mandava la manna quotidiana in quel deserto
di povertà e di fede. Orsola, così aliena dal pubblicizzare gli
eventi che accompagnarono la fondazione, racconta che una sera,
trovandosi senza niente da cena, le sorelle si disponevano già a
tornare in famiglia per sfamarsi. Clelia le invitò ad avere fiducia.
Dissero il rosario, e al termine della preghiera arrivò una donna
con una sporta piena del necessario per mangiare. Anche altre volte
la prodigiosa «sporta» integrò lo scarso piatto della cena serale.
Una provvidenza misurata e quieta, di cui si stenta a sollevare il
velo.
Il male di Clelia
La fede di Clelia era proverbiale, come il suo raccoglimento. A
volte, durante il lavoro di cucito, nel colloquio con le compagne,
nelle visite al tabernacolo, sembrava astrarsi. Le braccia protese
in alto, il volto infiammato... parlava con un essere invisibile.
Erano le estasi. Le compagne dicevano: «Oh! Clelia ha il suo male...
»; e aprivano le finestre... Questo stato si protraeva a volte per
più di mezz'ora. Ci fu chi consigliò di portarla dall'arciprete di
S. Ruffillo, nella periferia di Bologna, per una benedizione... In
realtà, in quei momenti di esperienza mistica, comunicava con un
interlocutore più forte, che sempre più diventerà il protagonista
della sua vicenda terrena. Clelia non uscì mai dal triangolo della
canapa: S. Giovanni, Anzola, Castelfranco Emilia. Il suo fu il
piccolo pendolarismo della gente che non ha mezzi di trasporto e
solo vede, di quando in quando, qualche carrozza tra il polverone
delle strade di campagna. Eppure la sua intuizione dei bisogni e la
sua capacità di lettura degli eventi l'aiutarono a superare l'argine
del fiume e l'orizzonte paesano.
Clima di fede
La figlia del bracciante e le sue compagne restano quello che sono,
dove sono, come sono, poste a tempo pieno al servizio della comunità
del villaggio. L'esperienza di tre anni nella casa del maestro non
smentisce nulla del progetto iniziale, se mai ne precisa sempre più
la matrice eucaristica, il rapporto vitale con Cristo e con la
Chiesa, l'attenzione privilegiata ai piccoli, ai malati, ai poveri.
Nel Ritiro delle Budrie si respira un clima di fede, una vera fame e
sete di Dio, un istinto missionario, pieno di creatività e di
fantasia, quasi indifferente rispetto ai mezzi organizzativi, le
cosidette strutture. C'è una nota costante di semplicità evangelica;
la pura e santa semplicità, direbbe S. Francesco d'Assisi, che è
sorella della sapienza. Qualcosa di inimmaginabile per noi che
apparteniamo a una cultura sofisticata e complessa: un insieme di
umiltà, di forza morale, di calma, di lucidità che caratterizza il
portamento, l'abito, il linguaggio.
La stoffa di cui sono fatte queste ragazze si vede nelle emergenze
storiche che non risparmiarono né il capoluogo persicetano, né i
suoi dintorni rurali.
I tumulti del giorno sette
Il 1° gennaio 1869 fu un capodanno inquietante, entrando in vigore
l'imposta sulla macinazione dei cereali, in ragione di lire 2 per la
bianca e di 0,80 per la farina gialla, ogni quintale. La legge,
decisamente impopolare, che incideva sul già magro bilancio della
povera gente, suscitò un'impressionante reazione a catena in tutta
l'Italia settentrionale, segnatamente a Reggio, Parma e Bologna. La
violenza dei moti raggiunse il culmine a S. Giovanni, il giorno
dopo l'Epifania: ancor oggi, nel persicetano, il «giorno sette»
significa il dies irae.
Sulle ore 10, i rivoltosi - circa tremila - armati di bastoni,
mannaie, falci e fucili, invasero il capoluogo, dirigendosi verso il
palazzo comunale. Il sindaco Mariani, il pretore, il delegato di P.
S., il maresciallo dei CC. tentarono con promesse di sedare la
rivolta; il sopraggiungere di una colonna di dimostranti da Sala
Bolognese, al rullo di tamburi, fece precipitare la situazione; e
tutto fu inutile. Devastato il municipio, gettate dalle finestre
masserizie, documenti d'archivio, oggetti di arredo, il guasto
investì il telegrafo, l'ufficio del registro, l'esattoria,
l'archivio della partecipanza, i negozi, gli spacci, le osterie, le
case dei notabili.
Nelle prime ore del pomeriggio era alle porte di S. Giovanni in
Persiceto, con due pezzi di artiglieria leggera, un battaglione di
bersaglieri che - dopo lo squillo di tromba - entrarono a passo di
carica, aprendo un fuoco micidiale. Alle 5 del pomeriggio la
situazione era ristabilita, ma a quale prezzo! Sulla piazza e sulle
strade, cosparse di ceneri, tizzoni, carte bruciate, rimasero dieci
morti, fra cui due giovani fidanzati assolutamente estranei alla
vicenda e numerosi feriti.
Fonte di luce e di conforto
Seguirono giorni difficili. Il governo Menabrea aveva delegato i
pieni poteri a Raffaele Cadorna, che insediò a Bologna il suo
quartier generale. Truppe in pieno assetto di guerra stazionarono in
Persiceto e dintorni, operando perquisizioni e arresti di centinaia
di cittadini, in prevalenza braccianti e coloni.
Il villaggio delle Budrie ebbe la sua parte nel calice amaro:
«La forza pubblica - riferisce suor Vincenza - intervenne anche alle
Budrie. Non so in quale giorno, vennero soldati a cavallo; e fu
circondata la chiesa, quando la popolazione era dentro, per
catturare i responsabili. Fu uno spavento generale; quelli che erano
in chiesa, particolarmente le donne, diedero in urla e pianti
suscitando uno scompiglio indescrivibile. La serva di Dio, che si
trovava dentro, riuscì col suo prestigio e con la sua parola a
tranquillare la popolazione agitata e specialmente le donne,
assicurando che nulla sarebbe avvenuto di grave. Ho sentito dire che
qualcuno fu catturato e il parroco stesso dovette seguire fino a S.
Giovanni il
comando della forza pubblica, ma fu lasciato subito in libertà».
Non desta meraviglia che, in quei giorni di timore e di amarezza, i
parrocchiani delle Budrie si stringessero intorno a Madre Clelia,
ravvisando in lei un segno di luce e di conforto in una situazione
pesante ed oscura. Infatti, la serva di Dio, la quale negli
avvenimenti del 1866 era rimasta turbata fino all'angoscia,
manifesta ora uno stile nuovo e - confermata dal consenso comune
nella sua vocazione di sorella dei poveri - irradia intorno a sé un
senso di serenità di fortezza evangelica. La regola del silenzio
Come i poveri del Vangelo Clelia e le sorelle hanno il dono della
sapienza, ma non sanno di averlo; non sanno di sapere. Ciò le mette
al riparo dalla tentazione presente anche nelle persone buone, che
è quella di citare se stessi, di autoreclamizzarsi. Vige la regola
del silenzio: ci si fa santi di «nascosto», d'arpiat, dice Orsola.
Proprio in questa condizione silenziosa il gruppo iniziale, presto
accresciuto da altri arrivi, sperimenta in modo inconsueto la
provvidenza del Padre che nutre gli uccelli dell'aria e veste i
gigli del campo. Dalle mani che non possiedono nulla scaturiscono
doni, e dal cuore semplice zampilla la sapienza. Dio fa lievitare
questo nucleo come una grande benedizione che si estende a cerchi
concentrici dal villaggio ai suoi dintorni vicini e lontani.
A poco a poco, di qua e di là dal Samoggia, la gente riconosce a
Clelia un ruolo di guida, consolatrice, maestra nella fede. Da
cortile a cortile, da borgata a borgata, da campanile a campanile,
la ventenne delle Budrie fu vista come il segno che il Signore non
lascia mai mancare al suo popolo: la santità. La santità giovane,
la santità paesana, la santità ardente.
Interesse, curiosità, emozione le crearono un'attenzione affettuosa
e per certi aspetti preoccupata, che costringeva i giovani e gli
anziani a una revisione di coscienza e di vita. Nelle case, nelle
botteghe, nelle stalle, che d'inverno erano il salotto dei poveri,
cominciarono a chiamarla «Madre Clelia». Fu il modo con cui la
tradizione popolare, prima ancora dei sommi pontefici, canonizzò la
ragazza delle Budrie. Così, in epoca recente, il termine «Madre» ha
consacrato Teresa di Calcutta.
«Una memoria io voglio scrivere»
Due fatti meritano di esser segnalati. Portano la data della
Domenica 31 gennaio 1869 e del 25 marzo dello stesso anno, Giovedì
santo: episodi salienti che compendiano tutta la vita di Madre
Clelia.
Il 31 gennaio 1869, sulle rive del Samoggia, il termometro toccò
punte di 14 gradi sotto zero; e non meno rigida, dopo i moti del
macinato, fu la meteorologia sociale. I giovani arrestati nel
pomeriggio del 10 gennaio si trovavano in carcere in attesa del
processo. Le campane tacevano...
Quella Domenica di Sessagesima
La gente si avviò alla chiesa per la prima Messa tra paure e
speranze. Mai liturgia di Sessagesima fu così partecipata. Intorno
al celebrante si schierava tutta la comunità. Le donne nella navata
centrale, gli uomini nel transetto; i bambini sulle panchine davanti
all'altare... Clelia con le sorelle del ritiro in un proprio banco.
L'abito invernale, con il velo e lo scialle, custodiva bene le
emozioni e il raccoglimento.
Don Guidi, dichiara la relazione per la sacra visita, «cercava di
adempiere puntualmente i doveri del ministero, fra cui non tiene
certamente l'ultimo posto la spiegazione e la dichiarazione
dell'Evangelio e parola divina».
A Sessagesima il lezionario biblico proponeva, oltre la II lettera
di Paolo ai Corinti (11,19-33; 12,1-9), la parabola lucana del
seminatore (8,4-15), oscura per gli estranei, ma chiara per i
discepoli: «A voi è stato dato di conoscere i misteri del Regno di
Dio». Il curato si lasciò afferrare dal realismo di quella parabola
contadina ed ebbe accenti di eloquenza insolita.
Per Clelia ogni Messa era un avvenimento; ma quella giornata così
gelida registrò qualcosa di inatteso. Vi fa riferimento la «lettera
a Gesù», che amiamo chiamare il «memoriale» di Madre Clelia. È
l'unico scritto di suo pugno a noi rimasto; e non dobbiamo nemmeno
rammaricarcene, tanto è vivo e pregnante.
Caro il mio Sposo Gesù Una memoria io volio scrivere per averla sempre in memoria.
Grandi sono le grazie che Iddio mi fa il giorno 31 del mese di Gennaio 1869 nel mentre che io mi
trovava in Chiesa a udire la santa Messa mi senti una inspirazione granda di mortificare la mia volontà in tutte le cose per piacere
sempre più il Signore e io mi sento la volontà di farlo ma le mie forze non ne o bastanza granda Ho grande Iddio voi vedete la mia volontà che è quella di amarvi e di cercare sempre di stare lontano dalla vostra offesa ma
la mia miseria e tanto grande che sempre vi offendo. Signore apprite il vostro cuore e butate f ùora una quantità di fiamme da more e con queste
fiamme acendete il mio ,fate che io brucio da more. Ha cara la mia buona figlia tu non puoi credere quanto sia grande la more che ti porto il bene straordinario che ti voglio la speranza che ho di vederti santa e straordinaria, dunque
coraggio nei combatimenti sì fatti pure coraggio che tutto andarà bene e cuando tu ai
dele cose che ti disturbano fatti coraggio a confidarmelo e io con la iuto del Signore cercarò di chietarti amate Iddio e non ti dimenticare di me povera peccatora. Sono la tua serva Clelia Barbieri
L'autografo, letto e meditato con amore, rivela aspetti sempre nuovi
e sorprendenti. Dice come Clelia parlava e come catechizzava;
esprime la sua sensibilità ardente e volitiva, la sua umanità
realizzatrice e carismatica; documenta il passaggio dello Spirito in
uri momento critico della comunità.
Il giorno, il mese, l'anno, indicati così dettagliatamente, fissano
l'inquadratura storica. Nel capoluogo è stata ammainata fin dal 12
giugno 1859 la bandiera pontificia e issato il tricolore sabaudo;
nelle scuole c'è il ritratto del re al posto della B.V. di S.
Luca... La gente è inquieta. Le lunghe ferme militari dei giovani, i
difficile rapporti fra i parroci e le autorità municipali, l'effetto
dirompente della tassa sul pane, hanno creato un'atmosfera
angosciosa nei borghi e nelle case.
Fra grammatica e mistica
Per capire il senso pieno dello scritto del 31 gennaio dobbiamo
calarci in questa situazione, con l'animo di colei che è partecipe
del dramma della sua gente, e nello stesso tempo si protende verso
la chiamata ultima dello Sposo.
Sono due pagine in tutto: 54 righe e 226 parole. Si potrebbero
intitolare così: 1° - «della volontà»; 2° - «della grazia». La
volontà: quanta ne aveva Madre Clelia! Questa parola ricorre tre
volte con sfumature diverse, che indicano l'io da mortificare, il
fermo proposito, il desiderio ardente di amare il Signore.
Nella seconda pagina si respira un clima diverso, dominato dalla
presenza del Signore. Gesù chiama Clelia «cara la mia buona figlia»;
lei si dichiara «povera peccatora», «serva», «sposa». Il Voi si
scioglie nel Tu, indice di coraggiosa confidenza sponsale. Per tre
volte risuona, da parte del Signore, l'invito al coraggio: «dunque
coraggio nei combattimenti (le prove esterne)... sì fatti pure
coraggio... e se hai delle cose che ti disturbano (le prove
interiori) fatti coraggio a confidarmelo... ». Quando arriva in
fondo sottoscrive: «Sono la tua serva Clelia» (aggiungerà poi il
cognome «Barbieri»); e in alto pone l'intestazione «Caro il mio
Sposo», a cui farà seguito la parola »Gesù», con un tratto di penna
più sfumato. Così lo scritto, che all'inizio è essenzialmente un
promemoria, diviene una lettera a Gesù.
Clelia e Pascal
L'autografo interessa anche come prova della familiarità che Clelia
aveva preso con la penna. Del resto la tradizione dice che scriveva
biglietti di monito e di incoraggiamento ad alcune giovani, che
forse in seguito fecero parte del gruppo. Nel suo piccolo fu
catechista epistolare, apostola della corrispondenza.
Certo il grado di conoscenza della grammatica è meno che elementare;
ma quando vuol farsi capire, ci riesce; la sua comunicazione è calda
e schietta.
A suo modo sa tenere la penna in mano. Ad esempio, la frase
iniziale è un modello dell'artificio letterario detto della
«inclusione», caro a S. Giovanni evangelista: «Una 'memoria' io
voglio scrivere per averla sempre in 'memoria'». Così il rapido
passaggio dal passato al presente, la ripetizione di parole-chiave,
l'uso insistito dei pronomi e dei possessivi, rivelano uno stile
personale, in cui idea-parola-realtà fanno corpo tra loro. In tutto
il testo c'è una sola virgola, piazzata strategicamente davanti a
quel «dunque coraggio» che segna una svolta nel discorso e
nellavita.
Se paragoniamo queste due pagine sgrammaticate con il memoriale,
scritto nella «notte di fuoco» della conversione, che Pascal portava
sul cuore, letterariamente c'è un abisso; ma nella sostanza la
ragazza delle Budrie e il genio francese si incontrano.
«Non il Dio dei filosofi, ma il Dio dei Padri, il Dio di Cristo»,
scrive Pascal; e Clelia con quella sua scrittura che man mano si
allarga, fino a divenire infuocata e tumultuosa, dà voce ai
pensieri del cuore con parole dense di luce e di sapienza, che
caratterizzano la fase più alta dell'esperienza spirituale. Se due
anni prima Clelia attraversava la notte oscura, ora è nella fiamma
viva.
Essa portò sul cuore questo foglio di carta ripiegato in 12 parti,
forse dentro un sacchettino di tela, come usava per le medaglie e
per lo scapolare della Madonna del Carmine.
Le sorelle, dopo la morte di Clelia, lo misero in una cornice povera
e disadorna con quattro punte da ingegnere. Ora resta come un trofeo
tra le reliquie più preziose - la Filotea, La Pratica di amar Gesù
Cristo, la catenella penitenziale, il cuore con le punte, la ciocca
di capelli - e costituisce il testamento spirituale, il messaggio
conclusivo di colei che è stata ideatrice, modello e guida della
fondazione delle Budrie.
La cena del Giovedì Santo
Il Giovedì santo 1869 coincise con la data tradizionale
dell'Annunciazione, il 25 marzo; e fu, a tutti gli effetti, festa di
precetto. Non accadeva dal 1728.
Alle Budrie, come in tutto il persicetano, le campane ebbero modo
di risarcirsi del forzato silenzio che perdurava dal 7 gennaio e il
dies natalis calicis si dispiegò in tutta la sua bellezza. Al
termine della Messa solenne, don Guidi portò la riserva eucaristica
- l'Ostia grande per il Venerdì santo e le particole per gli infermi
- nell'Oratorio di S. Giuseppe; poi, rientrato in chiesa, procedette
alla spogliazione degli altari.
Nelle ore pomeridiane, al di qua e al di là del Samoggia, si snodò
il pellegrinaggio popolare impropriamente detto «visita ai
sepolcri», con il rituale di sempre... Ma un evento nuovo si compì
nella loggia al primo piano della casa del maestro.
Il racconto di Carmela Donati
La tradizione più accreditata giunge a noi per bocca di Carmela
Donati, sorella di Madre Orsola: «Il Giovedì santo Clelia mi ordinò
di cercare dodici ragazze di 16-17 anni; le fece sedere e, postasi
alla cintura un grembiule, lavò loro i piedi. Quindi si sedette con
loro ad una specie di cena, fatta di radicchi e di una bevanda amara
con erbe bollite, che somministrò dentro dei bicchieri a forma di
calice. Poi, inginocchiatasi sopra una sedia fra due armadi, parlò
per quasi mezz'ora della Passione del Signore. Nessun predicatore
aveva mai parlato così...».
Una sostanziale continuità lega l'episodio del Giovedì santo
all'«inspirazione granda» del 31 gennaio... Lo scenario non è la
chiesa, ma la casa. Gli attori, oltre a Clelia, sono dodici ragazze
del paese: sei appartenenti al ritiro e sei ragazze da marito, tutte
solidali tra loro.
Niente del genere, a memoria d'uomo, era mai accaduto alle Budrie.
Quel rito rientrava nella prassi delle cattedrali, dei cenobi, delle
collegiate. Qualcosa di più estroso e borghigiano apparteneva alle
abitudini delle confraternite, che alla lavanda dei piedi facevano
seguire una frugale agape di mandorle e fichi secchi, al canto di
antiche laudi della passione.
Lavanda, agape e discorso si inserivano in un contesto
biblico-liturgico. Chi era andato il giorno prima a raccogliere
lattughe e radicchi selvatici aveva ben chiaro, anche nei
particolari, il riferimento all'ultima Cena.
Eucaristia e vita
Siamo ricondotti alla fonte della santità e del servizio di Madre
Clelia: l'Eucaristia.
Allora era più vissuta che parlata. Vigeva una disciplina rigida:
digiuno che si infrange con un sorso d'acqua o con un chicco di
miglio; rarità del banchetto; timore e tremore di fronte
all'Ostia... Quasi una disciplina dell'arcano.
Il Santissimo Sacramento permeava la vita. Dire Eucaristia e
comunità non era solo una tesi del teologo, ma un dato
dell'esperienza nelle forme e nei modi dell'epoca. L'atmosfera del
villaggio recava questo segno in privato e in pubblico. La settimana
culminava nell'Eucaristia domenicale, che si rifletteva su tutta la
realtà, dalla mensa all'abito, al lavoro, alle relazioni sociali. La
Domenica era davvero la festa primordiale, la Pasqua di ogni
settimana.
L'anno aveva in sé questo polso eucaristico. Il cristiano adulto
era ancora per l'anagrafe parrocchiale «anima da comunione».
Che festa per il Corpus Domini con l'Eucaristia portata in trionfo
sulle vie, sugli argini, sulle piazze! Per le Quarantore c'erano
usanze tipiche per ogni paese, e l'altare delle umili pievi
diventava trono e arco trionfale al mite re di gloria.
Ma anche la storia dell'uomo: nascere, morire, sposarsi, partire,
ammalarsi, guarire... tutto portava questa impronta. Un viatico era
un piccolo Corpus Domini. Una prima Messa faceva storia.
Fra le strutture parrocchiali la «Compagnia del Santissimo» era
quella più popolare. Tutti - uomini e donne - ne facevano parte.
Così Clelia. Bisogna aggiungere al titolo di «operaia della dottrina
cristiana» l'altro di «consorella della Compagnia del SS.mo», come
il suo svolgimento logico, il compimento. I due gesti del 1869,
inseriti e meditati in questa luce, sono il segno che l'Eucaristia
fu realmente culmine e fonte, anima del Ritiro e della comunità
intera; e insieme gesti profetici, presaghi della fine.
Tutta la vita di Clelia si protende verso l'Eucaristia, e lì
consuma la sua ultima offerta. Quando don Guidi salirà la scala
della casa del maestro per recarle il viatico nella stanzetta da cui
vedrà insieme l'argine del fiume, il futuro della famiglia e le
porte della Gerusalemme celeste, quella sarà la sua Pasqua ultima,
il sigillo al patto sponsale con Gesù, di cui portava sul cuore «la
memoria per averla sempre in memoria».
La tua speranza non perirà
A questo anno privilegiato sembra doversi ascrivere anche la foto
che Zaccaria Nanetti scattò nell'Oratorio di S. Giuseppe. Di essa
possediamo solo un ritaglio, noto come «ritratto di Madre Clelia»,
mentre il formato originario comprendeva altre figure.
La fotografia rende bene il clima del 1° anniversario di apertura
della casa del maestro. La scena fissata da Zaccaria potrebbe
identificarsi con il rito di vestizione, a cui fa cenno una teste
al processo apostolico: «Dopo circa un anno il parroco pensò di dare
un abito alla Clelia e alle sue compagne, di color nero, semplice
ed uniforme».
Clelia appare in una condizione di serena quiete. L'abito, dalla
sobria eleganza, si rivela qualcosa di più di un accorgimento della
regia; l'indice della destra proteso verso l'alto non può avere il
generico valore di una manualità spontanea; il crocifisso brandito
con la sinistra appare il distintivo di una consacrazionemissione,
che ha il suo modello nella configurazione a Cristo e
all'Addolorata.
Clelia, quasi appoggiata a una delle svelte colonne di fianco
all'altare, ha davanti a sé le compagne che condividono il suo
progetto e le riconoscono una maternità spirituale. Nell'abside sta
la pala di Vincenzo Spisano, che raffigura S. Giuseppe agonizzante
con Maria inginocchiata ai suoi piedi. Gesù conforta il padre
putativo, indicandogli con il dito della mano destra i cieli aperti,
mentre nello squarcio della gloria gli angeli mostrano un cartiglio
con la scritta: «Spes tua non peribit - La tua speranza non perirà».
(Prov. 24,14).
Maria Addolorata ha il volto delle donne budriesi e di mamma
Giacinta, quando in quel lontano 11 luglio 1885 papà Giuseppe morì
ucciso da un colera fulminante. Clelia lo doveva sentire in modo
speciale. L'icona è la vita.
Il congedo
Clelia è ormai matura per il cielo. Con l'ultima malattia, durata
circa 7 mesi, la mano del Signore rompe la tela al dolce incontro.
Una ricaduta del suo male la incornicia nella stanzetta al primo
piano, donde spazia sulla verde pianura fino e oltre l'argine del
Samoggia: una tisi violenta con rigurgiti sanguigni.
Un profeta armato
La malata continua a vivere in stato di profezia. A suo modo, è
quello che si dice un profeta armato, una lampada posta sul
candelabro. L'umile saccone è una cattedra, da cui evangelizza con
grande sapienza ed energia. Gli ospiti entrano in punta di piedi e
se ne vanno con le lacrime agli occhi, confermati nel bene.
Vuole essere soprattutto testimone di pace e di misericordia. Chiama
zio Zeffirino e gli dice: «Zio, non era un capriccio; era volontà di
Dio. Ma se ti ho involontariamente dato dispiacere, ti chiedo
perdono». Il fratello di mamma Giacinta esce dalla camera
singhiozzando, senza fare parola.
Due giorni prima di morire chiede di essere trasferita in un'altra
stanza: cerca un ambiente intatto, prospiciente la chiesa, per
celebrare la Pasqua. Si volge ad oriente, verso il Signore che
viene. Al suo capo ha l'immagine dell'Addolorata; davanti, S.
Francesco da Paola, amico e confortatore nell'ultimo combattimento;
nelle mani il Crocifisso.
A don Guidi chiede un altro favore: «Portatemi la Madonna».
Nell'oratorio di S. Giuseppe c'è infatti la statua della Beata
Vergine delle Grazie traslata dall'oratorio di S. Antonio, in
restauro. Il desiderio è appagato. Venerata sotto il titolo delle
Grazie, in realtà è un'immagine della Beata Vergine del Carmelo.
Viene portata processionalmente al capezzale dell'inferma, che ha
voluto essere iscritta al Carmine, per un incontro che ormai va al
di là del segno verso la realtà significata.
Poche ore dopo, Clelia entra in coma. Un sopore profondo. Si
risveglia. Parla, esorta, consola. Pronuncia le parole del «suo
salmo»: Amate e temete il Signore, perché è grande e buono.
Quindi entra in un sopore lucido, devoto, sensibilissimo. Appena un
istante di turbamento, poi una calma suprema. Il congedo dai suoi
cari. La promessa ad Orsola. Le sussurra affettuosamente prendendole
la mano: «Orsolina, tu farai le mie veci; non avere paura, non
scappare... Io me ne vado, ma non vi abbandonerò mai... Vedi, quando
là, in quel campo d'erba medica accanto alla chiesa, sorgerà la
nuova casa, io non ci sarò più... Crescerete di numero e vi
espanderete per il piano e per il monte a lavorare la vigna del
Signore. Verrà un giorno che qui alle Budrie accorrerà tanta gente,
con carrozze e cavalli...».
Aggiunge: «Me ne vado in paradiso; e tutte le sorelle che moriranno
nella nostra famiglia, avranno la vita eterna... Qui muoio
contenta... Questa camera sarà convertita in cappella; vi sarà
celebrata la santa Messa e voi sarete molto consolate».
Poi raccomanda al parroco la mamma; la sorella Ernestina, sposa dal
24 maggio; le compagne, fra cui non c'è più Teodora. morta il 16
dicembre 1869. Dà loro il saluto di addio. Uno sguardo intorno, un
sorriso; e spira. Sono le ore 18 del mercoledì 13 luglio 1870.
Clelia ha 23 anni, 4 mesi, 28 giorni.
Il chicco di grano nei solchi della terra
È una morte esemplare; e, dopo il transito, si diffonde una
straordinaria irradiazione di pace e di energia soprannaturale. Il
paese accorre alla notizia della morte come a un trionfo; autentico
anche se paesano: i fiori che adornano la bara sono di carta,
ritagliati con le forbici.
Ascoltiamo un testimone oculare, Valentino Moruzzi: «Io allora avevo
6 anni. Noi bambini non potemmo entrare in chiesa il giorno dei
funerali, la mattina del 15 luglio, per la moltitudine che c'era. Ma
riuscii a vedere la bara prima che fosse portata in chiesa. Era
ancora aperta e sopra vi era disteso un velo bianco, attraverso il
quale assieme ai miei compagni la potei vedere distintamente. La
ricordo come se l'avessi presente... Non vi erano fiori freschi e
veri, anche perché in quei tempi e in quei luoghi non c'era l'uso;
c'erano dei fiorellini di carta che ho toccato con le mie dita
disposti ad archetti ai fianchi della salma...».
Nel vecchio camposanto, sul sagrato, don Guidi pose qualche anno
dopo un'epigrafe di rara bellezza: «Qui riposano le spoglie
verginali - di Clelia Barbieri - ammirata fin dalla puerizia per
ritiratezza modestia e carità - e per il dono di attrarre le anime a
Dio - elettasi con tre compagne comunanza di povera e santa vita -
iniziò la famiglia delle Minime dell'Addolorata - le diede regole e
spirito - ed un biennio dappoi passò lieta al celeste Sposo».
Quella morte emozionò tutti, e scosse qualche anima, come in un
ultimo sconvolgente colloquio. Si spezzarono cuori induriti; molti
che erano morti spiritualmente, risuscitarono (cfr. Mt 27,52). A
documentazione citiamo il caso di Teresa, figlia adottiva di
Giovanni Girotti, l'artificiere delle Budrie: «Alla vista della
salma - dice suor Imelde - una giovanetta assai mondana si convertì
ed altre undici risolsero di abbracciare lo stato religioso». Teresa
morirà nell'epidemia di vaiolo che infuriò sul finire del 1871. Si
era subito messa al lavoro. Il suo nome figura nell'elenco delle
operaie della dottrina cristiana, sicuro indizio di una nuova scelta
di vita.
Un anno dopo, la voce.
A un anno di distanza dalla morte, la sera del 13 luglio, Clelia è
nel cuore delle sorelle. Nella casa del maestro si rivivono i giorni
e le ore del suo congedo, in un clima di fraternità e di preghiera.
Ed ecco, la voce.
«Raccontano le prime compagne»: «Volemmo santificare in modo
speciale quella data memoranda e stabilimmo di fare il giorno di
ritiro nella stessa camera ove Clelia era spirata; camera che era
già stata eretta a cappella, ove si celebrava, senza però potervi
tenere il Santissimo.
Ad ogni ora andavamo a pregare; e più che in ogni altro giorno ci
sentimmo unite allo spirito di lei, che sempre ricordavamo con
venerazione. Ad un punto della nostra preghiera una voce alta,
armoniosa, celestiale accompagnò il nostro coro, volteggiando a
destra e a sinistra, innalzandosi e sfiorando le orecchie.
Il giubilo che apportava questa voce riempiva gli animi nostri di
una gioia impossibile a descriversi. Quella non era cosa terrena.
Noi vivemmo in quel giorno ore di paradiso. A quando a quando era
necessario uscire... L'emozione che si provava era sì forte che
toglieva il respiro, e con impeto si doveva gridare: - Basta,
Signore, basta!».
Orsola non ebbe dubbi: è Clelia! Quando il gruppo delle sorelle si
portò in cappella, per l'ultima preghiera prima del riposo, la voce
si fece sentire più intensa e perentoria. Vegliarono tutta la notte
davanti al tabernacolo della chiesa parrocchiale, pensando non ci
fosse luogo più adatto per questo imprevedibile colloquio. E la voce
pregò con loro fino all'alba.
Da quel giorno non le ha più lasciate. Si fa sentire, a
intermittenza, negli ambienti e nei contesti più disparati; e in
modo che tende a condensare nel tono, a volte dolente e supplicante,
più spesso incoraggiante e sereno, il servizio che Clelia da viva
aveva reso costantemente alla comunità.
La voce si fa messaggio, rivolto a persone di ogni ceto, ma
soprattuto alle Minime dell'Addolorata che ne sono destinatarie
previlegiate. In questo segno le sorelle videro attuata la promessa
di Clelia morente: «Non vi abbandonerò, ma sarò sempre con voi».
Dell'argomento, oltre il Gusmini - che tolse la consegna del
silenzio data dai suoi predecessori - si occupò in modo particolare
il p. Nicola Monaco, gesuita, il quale raccolse ben 150
testimonianze dal 1871 in poi. Significativa fra le tante quella di
mons. Cesare Sarti, che nel 1916 udì la voce accompagnare il rosario
dei soldati nella cappella dell'ospedale militare allestita nel
Seminario Regionale di Bologna. E anche i soldati l'avvertirono sia
a Bologna che a Mestre, dove le Minime prestavano servizio
infermieristico. È avvenuto anche nel 1943 durante la seconda
guerra mondiale, tra i soldati dell'ospedale da campo presso l'asilo
di S. Giovanni in Persiceto.
Le Minime dell'Addolorata
Ancor più che in questo fenomeno Madre Clelia si fa sentire nella
tradizione vivente delle sue sorelle: le Minime dell'Addolorata,
come il card. Lucido M. Parocchi le battezzò nel 1878. È in questa
eredità spirituale che noi abbiamo la lettura autentica e continua
di una testimonianza cristiana, semplice e popolare, proposta come
modello alla Chiesa universale da Paolo VI il 27 ottobre 1968,
quando la ragazza delle Budrie fu detta «Beata».
Lo stesso titolo di Minime dell'Addolorata esprime lo spirito e la
linea. Minime dice umiltà, povertà, servizio; l'Addolorata richiama
la realtà dei paesi della valle padana nella sofferta dignità dei
miti e umili di cuore, solidali con Cristo e fra loro. Così
attraverso la sua famiglia religiosa la ragazza delle Budrie si fa
oggi sorella, commensale, catechista, infermiera dei piccoli, dei
malati, dei poveri del mondo. E c'è tra lei e loro una
corrispondenza reciproca, un patto sociale, un'intesa misteriosa.
Lo confermano i Vescovi della Regione Emiliano-Romagnola:
«Quelli che maggiormente sono attratti da Madre Clelia sono gli
umili, i sofferenti, i giovani, i catechisti. Gli umili la sentono
una di loro; i sofferenti, loro sorella; i giovani, loro coetanea; i
catechisti la riconoscono modello, come evangelizzatrice a servizio
pieno e perseverante...»
Sul candelabro
Va aumentando il numero dei fedeli che passano alle Budrie giorni
interi o brevi periodi di raccoglimento, per imparare il segreto
della preghiera e la gioia dell'abbandono in Dio. Molti ricorrono
alla intercessione di Madre Clelia, e si moltiplicano le
testimonianze di riconoscenza per i favori celesti implorati e
ottenuti. Quelli spirituali sono i più numerosi. Sembra pure che il
Signore manifesti, per il suo tramite, la predilezione per i poveri,
gli emarginati, coloro che non contano, quasi a far continuare alla
ragazza delle Budrie quell'umile servizio di carità che le era così
caro sulla terra.
La beatificazione
Di questa santità giovane, maturata nei solchi della buona terra,
Paolo VI espresse mirabilmente la sostanza evangelica nel discorso
del 27 ottobre 1968, all'atto della beatificazione:
«A che cosa paragoneremo il regno di Dio? o con quale similitudine
lo figureremo? Esso è simile a un granello di senapa, il quale,
quando si semina in terra, è più piccolo di tutti i semi che sono
sulla terra; ma, seminato che sia, cresce e diventa più grande di
tutti gli erbaggi e fa dei rami così grandi che gli uccelli del
cielo possono ripararsi alla sua ombra» (Mc 4,30-32).
A queste parole del Signore correva il nostro pensiero, mentre
porgevamo il nostro atto di venerazione alla nuova Beata. La prima
impressione che la sua vita offre al nostro sguardo, abituati, come
tutti siamo, a osservare e misurare gli uomini secondo la loro
statura nel contesto storico e sociale, è quella della piccolezza.
Qual è la sua storia? Si dura fatica a rintracciarla e a descriverla
per la scarsezza di dati di cui si compone, per un primo motivo,
quello della brevità del suo soggiorno terreno di soli ventitré
anni.
Ed altro limite riscontriamo in Clelia nella scena umana in cui
quella vita si svolge: l'umiltà dell'ambiente, quello di una
modesta ed ignota parrocchia rurale, le Budrie di S. Giovanni in
Persiceto.
Ma un'altra impressione succede, quella della scoperta. Avviene
spesso nella vita dei Santi. I titoli della loro vera personalità
bisogna scoprirli, e perciò bisogna cercarli. Quelli che credono
che la santità abbia come manifestazione ordinaria il miracolo,
spesso si illudono. Il miracolo potrà verificarsi, e costituire il
segno di virtù e di carismi straordinari, e quindi di santità
meritevole di speciale onore e di fiducioso credito. Ma questa
santità dev'essere cercata in altre sue manifestazioni, le quali
esigono nell'osservatore particolari condizioni di spirito, che sono
poi quelle che da un lato rendono a lui benefico il culto dei Santi
e dall'altro lo giustificano; cioè dev'essere cercata nella
somiglianza, che il Santo riflette su di sé, di Cristo, il modello,
il maestro, il vero santo.
E allora pare a noi di riudire la voce del Signore fare l'apologia
dei suoi eletti; ed ora di questa sua fedelissima Beata; la voce,
diciamo, di Lui, rimpicciolito perfino sotto il nostro livello (cfr.
Fil 2,7-8), di Lui, fattosi povero quand'era la ricchezza stessa
(cfr. II Cor 8,9), diventato, fratello a tutti noi per essersi
definito «il Figlio dell'uomo» (Mt 8,20 ss.), e ritenuto
socialmente il «Figlio del fabbro» (Mt 13,55); di Lui, che
effondendo al Padre l'amarezza e la dolcezza insieme del suo cuore,
posto a contatto con gli uomini ribelli e con quelli fedeli, svela
il piano segreto della sua rivelazione: «Io Ti rendo lode, o Padre,
Signore del cielo e della terra, perché hai nascoste queste cose ai
dotti e ai sapienti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché
così ti è piaciuto!» (Mt 11,25-26).
Ecco la sua parrocchiana
Artisti prestigiosi hanno dipinto il ritratto di Clelia Barbieri, ma
l'immagine esemplare la delineò papa Montini in questa epifania del
27 ottobre 1968, in cui Clelia «umile, eletta, fedelissima» venne
inserita nei ruoli della santità giovane e paragonata al chicco di
grano che matura in fretta nei solchi della buona terra.
Intorno al colonnato del Bernini si parlava dialetto con la tipica
inflessione persicetana in quella giornata dell'ottobre romano, che
segnò un memorabile incontro fra la comunità del villaggio e la
Chiesa universale. Nella grande abside di S. Pietro insieme con il
card. Giacomo Lercaro, già moderatore al Concilio Vaticano II, e
con il card. Antonio Poma, suo sucessore nella cattedra petroniana,
spiccavano le Minime dell'Addolorata e i parrocchiani delle Budrie:
fra essi, radioso, don Ugo Bravi. Rivolgendosi a lui il pontefice
indicò con la mano la nuova Beata in gloria: «Ecco la sua
parrocchiana!».
Nell'abbraccio al pastore delle Budrie Paolo VI ricompensò i vecchi
parroci di Clelia Barbieri – don Giuseppe Setanassi e don Gaetano
Guidi - che avevano guidato la comunità attraverso il turbine: il
colera del 1855, il tramonto dello stato pontificio nel 1859, le
repressioni di Crispi nel 1866, i moti del macinato nel 1869:
parroci di campagna, magnifici sacerdoti, ottimi pastori, educatori
di santi.
Si rinnnovano i prodigi
Madre Clelia oggi è conosciuta, amata e invocata in tante parti
della terra. Si rinnovano i prodigi. È il caso di Liana Stefanutto,
che nel giugno 1982 si trovava all'unità coronarica del S. Orsola,
sotto «monitor», già dichiarata irrecuperabile per un «lupus
eritematoso sistemico», complicato da una gravissima sindrome
cardio-respiratoria. Morire a 22 anni: è la sentenza inesorabile.
Le risorse mediche sembravano urtare contro un muro. Qualcuno allora
suggerii di pregare la B. Clelia, applicando sul cuore la reliquia.
Fu il vescovo ausiliare Benito Cocchi. Liana, ridotta a 30 chili,
si riprese nel giro di 24 ore. Ricominciò a mangiare; a sorridere.
Tre anni dopo, il 4 maggio 1985, si sposerà con Carlo Zilli nella
sua chiesa di Flambruzzo di Rivignano (Udine).
Mentre Liana si riconcilia con la vita, a Wadakanchery si è appena
aperta la prima casa del Kerala in diocesi di Trichur. Suor Maria
Rosa e le compagne indiane hanno portato con sè una reliquia ex
ossibus della fondatrice, e un po' di terra delle Budrie per deporla
nelle fondamenta con la prima pietra. Manca il cemento, manca
l'acqua, manca la luce... La Provvidenza interviene. Si invoca
l'intercessione della B. Clelia e di S. Francesco da Paola, in
ginocchio, sulla terra arida. Zampilla l'acqua da cui si ricaverà il
pozzo artesiano. Ne parla la stampa locale. E' una vena limpida e
gustosa, inesauribile, a cui attinge anche la gente dei dintorni.
Oltre gli argini del Samoggia
La devozione popolare si fa più diffusa e condivisa. Si inaugurano
targhe stradali, dedicate a «Clelia Barbieri religiosa educatrice»,
si erige una parrocchia alla Cavazzona di Castelfranco Emilia con il
titolo della Beata Clelia. Lo stesso avviene in Africa a Usokami,
dove il 12 ottobre 1985 il card. Biffi, arcivescovo di Bologna,
accoglie nella povera casetta di fianco alla missione cinque
aspiranti Minime tanzaniane: Monika, Rehema, Alfonsina, Luisa,
Yuditha.
Ben oltre gli argini del Samoggia, le Minime toccano ora le isole
lontane, secondo la predizione di Clelia. Le carrozze approdano alle
Budrie dal continente nero e dall'India, la culla del mondo.
Vederti santa
Il 22 maggio 1712, festa della SS. Trinità, Clemente XI iscriveva
nel calendario della Chiesa universale Caterina de' Vigri
(1416-1463). Per tutti, la «santa». Da allora la diocesi petroniana
non ha più conosciuto una simile giornata: il «Proprio» bolognese
registra una gloriosa serie di beati dal 1300 in poi; ma, al di
fuori della clarissa del Corpus Domini, nessun membro della Chiesa
locale ha raggiunto la canonizzazione. Sarà l'umile bracciante delle
Budrie a toccare l'altissimo traguardo dopo oltre due secoli.
Torna all'animo con indicibile emozione la domanda della piccola
Clelia: «Dimmi, mamma, come posso farmi santa?». Imelde Becattini,
verbalizzando questo interrogativo, parla di «santa ingenuità»; ma
è una espressione carica di forza profetica. La pastorella di Pibrac
In quegli anni calamitosi Pio IX esercitò il carisma della
consolazione innalzando agli onori dell'altare mirabili figure, fra
cui Germana Cousin, beatificata il 7 maggio 1854 e santificata il 29
giugno 1867.
Se, come era consuetudine, i parroci ne diedero notizia negli avvisi
domenicali, è legittimo pensare che l'incantevole vicenda della
pastorella di Pibrac sia giunta all'orecchio di Clelia Barbieri.
Quella giovane tolosana che un biografo chiama «fanciulla senza
importanza», non può non aver colpito chi in certo modo viveva una
storia parallela. Handicappata della mano destra, privata in tenera
età della propria madre, Germana visse in estrema povertà. Al
ritorno dai pascoli trovava riposo sopra un letto di sarmenti. Su
questo sfondo, reso ancor più dolente da guerre di religione e da
scontri sociali, si svolge un racconto che almeno in due occasioni
splende di luce prodigiosa: il cammino a piedi nudi sul torrente
Courbet, e i pani mutati in fiori nel grembiale aperto sulla neve...
Una nota specifica la accomuna alla ragazza delle Budrie: Germana
parlava di Dio e della Vergine ai propri amici delle campagne,
comunicando loro ciò che aveva appreso nella catechesi parrocchiale;
e ogni giorno andava a Messa, affidando il suo gregge al divino
pastore.
La trovarono morta, a 22 anni, un mattino d'estate del 1601. La
Chiesa di Francia, agli inizi del secolo XX, la proclamò patrona
della Gioventù rurale.
La risposta tanto attesa
«Mamma, come posso farmi santa?»... Ci è nota la domanda: non la
risposta. Forse Giacinta Barbieri si asciugò le lacrime e rimase
muta, volgendo lo sguardo stupito e commosso alla sua primogenita.
La risposta verrà molto più tardi nel clima ardente della
«inspirazione granda» del 31 gennaio 1869. Il dialogo non è più con
la madre ma con lo sposo Gesù, che scioglie così l'interrogativo dei
verdissimi anni: «... La speranza che ho di vederti santa è
straordinaria».
Il grido di Clelia - «Amate Iddio!» - ha il valore di un solenne Te
Deum, a cui farà eco tutta la plebs sancta, nel momento in cui
Giovanni Paolo Il pronuncerà la formula di canonizzazione:
«Ad onore della Santissima Trinità, per l'esaltazione della fede
cattolica e l'incremento della vita cristiana, con l'autorità del
Nostro Signore Gesù Cristo, dei santi apostoli Pietro e Paolo e
Nostra, dopo aver lungamente riflettuto e invocato l'aiuto di molti
nostri fratelli nell'episcopato, dichiariamo e definiamo santa la
beata Clelia Barbieri di Bologna, la ascriviamo all'albo dei Santi e
stabiliamo che in tutta la Chiesa sia devotamente onorata tra le
sante Vergini».
Preghiera del catechista
Padre della luce, ascolta la preghiera, che ti rivolgiamo come
evangelizzatori e catechisti, a cui è affidato il compito di
annunciare la Parola che salva
e di educare alla fède. Donaci lo Spirito di sapienza che guidò
Santa Clelia alla conoscenza del mistero nascosto ai dotti e agli
intelligenti e rivelato ai piccoli.
Fa' che diveniamo anche noi alla scuola di Cristo, Maestro e Sposo
della Chiesa, autentici operai del Vangelo per dire a tutti, più con
la vita che con le parole: «Amate Iddio, perché è grande e buono!».
Se la coscienza dei nostri limiti ci fa tremare di fronte a una
missione così grande,
la tua divina misericordia, di cui Clelia Barbieri ci è messaggera e
testimone, ci dà fiducia di poter collaborare, in semplicità e
letizia, alla crescita del tuo popolo. Per Cristo nostro Signore.
Link ad alcuni video: