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Se andasse a buon fine il processo di beatificazione, tra qualche anno potremmo avere sugli altari una ragazzina di 14 anni, normalissima nella vita, straordinaria nella sofferenza: una vera boccata d’aria fresca di cui Dio soltanto sa quanto abbiamo bisogno, soprattutto di questi tempi. Nasce il 7 marzo 1971, a Madrid, attesa con impaziente frenesia, per sette anni, da una sorella e tre fratelli, che si son già visti portar via dalla morte due fratellini di pochi mesi e che, quindi, una nuova sorellina se la sognano anche di notte. La famiglia è impregnata da cima a fondo della spiritualità dell’Opus Dei, ha principi solidi e una fede cristallina, per cui vive con riconoscenza, ma anche con trepidazione, questa nuova gravidanza, che mamma deve trascorrere quasi per intera a letto. La nascita di una bimba è una festa per tutti e i fratelli, di molto più grandi, se la contendono: c’è il rischio reale che diventi viziata, come quasi tutti i figli tardivi o unici e, se riesce ad evitarlo, è soprattutto grazie alla fede respirata in famiglia, al buon senso dei suoi e, anche, a quel di più che le è stato donato.

Precoce, sensibilissima, attenta ed intelligente, intuisce al volo e memorizza con una facilità sorprendente. Mamma, che è la sua prima efficace catechista, la porta spesso a messa con sé, condividendo con lei preghiere e meditazioni, ed è così che riesce a farla innamorare della Chiesa, della Parola e dei Sacramenti. È lei a prepararla alla prima confessione, indirizzandola verso un santo prete che sarà, se così si può dire vista la giovanissima età, il suo padre spirituale o, meglio, l’accompagnatore discreto ed intelligente del suo cammino verso Dio. “Gesù, che io faccia sempre quello che vuoi tu”, la sente un giorno pregare mamma: ha solo sei anni, ma già comincia a “parlare” al suo Gesù, che riceve per la prima volta l’8 maggio 1979, a Roma, vicino al sarcofago che custodisce le venerate spoglie di Josemaría Escrivá de Balaguer, il fondatore dell’Opus Dei, nella sua famiglia affettuosamente chiamato “il nostro Padre”, nella stessa celebrazione in cui i suoi genitori ricordano le loro nozze d’argento. Il giorno successivo, per una serie di fortunate coincidenze, riesce ad avvicinare Giovanni Paolo II nell’udienza del mercoledì: due avvenimenti fondamentali della sua breve esistenza, che la segnano profondamente e contribuiscono a rinsaldare il suo attaccamento all’Opera, alla Chiesa, al Papa, che quotidianamente sono presenti nelle sue preghiere, nei suoi pensieri e nel suo cuore. 

A dicembre 1984 avverte un dolore sordo alla spalla destra, che fior di traumatologi definiscono conseguenza di una contrazione muscolare. È soltanto in febbraio, quando lei si accorge di come braccio e mano stiano perdendo sensibilità, che i medici si rendono conto di una lesione alla colonna vertebrale capace, ad un movimento un po’ scomposto, di portarla alla paralisi. Immediatamente operata il 9 febbraio, iniziano così i dieci mesi del suo calvario, nel corso dei quali si scopre che la lesione della colonna vertebrale è stata causata da un sarcoma con metastasi ormai diffuse. In questi dieci mesi, per otto volte incidono il suo sempre più fragile corpo: oltre ai quattro distinti interventi alla spina dorsale, due volte le aprono l’anca per prelevare la parte ossea necessaria agli innesti, una volta per estrarre le garze dimenticate nel primo intervento, una volta ancora per inserire una canula per la sua alimentazione.

 Lo scempio del suo corpo e dei magnifici capelli di cui era tanto orgogliosa viene completato dai cicli di chemioterapia, i cui effetti collaterali sono purtroppo ben noti a chi vi si è sottoposto. Con la paura e le lacrime di una bambina della sua età, insieme al male che avanza, cresce a dismisura una fede solida. Man mano che la paralisi progredisce fino a condannarla alla più completa immobilità, si affina la sua capacità di amare anche quella sofferenza, di non lamentarsi, di tutto offrire, di nulla chiedere. È sostenuta in questo cammino di ascesi da una impareggiabile famiglia, che “fa squadra” con lei e le dimostra, con i fatti più che con le parole, come si può affrontare cristianamente un simile strazio e sofferenze così atroci con il sorriso sulle labbra. Alexia Gonzáles-Barros, ormai ridotta all’ombra di se stessa, spira la mattina del 5 dicembre di 25 anni fa, pronunciando come in un soffio il suo ultimo “sì” a Gesù.

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