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Venerdi, 29 marzo 2024 - Misteri dolorosi - Santi Simplicio e Costantino ( Letture di oggi )

Sant'Antonio di Padova:La vera umiltà non può soffrire, cioè non può dolersi dell'ingiuria ricevuta né star male per la prosperità altrui. E questo è giusto, perché se l'umiltà è falsa, crolla anche l'edificio delle altre virtù. Dice infatti Gregorio: "Chi pensa di poter acquistare virtù senza l'umiltà, è come colui che getta la polvere contro il vento".
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Vita di Santa Margherita Alacoque



Alacoque

Vita di Santa Margherita Alacoque - Parte 25



85. Tutto diviene umiliazione, senza che possa cercare conforto se non in Nostro Signore
Mentre accadevano tutte queste cose, non cessavano di gravarmi d'incombenze e faccende esteriori fin­ché riuscivo a sopportarne. Oltre alle pene che già pativo, se ne aggiungeva un'altra, perché credevo che tutte le creature avessero orrore di me e non riuscissero a sopportarmi, visto che neppure io riu­scivo a sopportare me stessa. Tutto questo mi pro­curava una pena continua nel conversare col prossi­mo e non avevo altro soccorso né rimedio che l'amo­re per la mia abiezione, in cui sprofondavo sempre più e non senza motivo, perché tutto si trasformava in umiliazione, anche le minime azioni, e mi guarda­vano come una visionaria, con la testa piena d'illu­sioni e fantasticherie. E intanto non mi era permes­so ricercare il minimo sollievo o conforto alle mie pene, perché il mio divino Maestro me 10 proibiva. Infatti, voleva che soffrissi tutto in silenzio e mi aveva dato questo motto: «Voglio soffrire senza lamenti Perché il mio puro amore Mi vieta ogni ti­more». Voleva che mi aspettassi tutto da Lui e, se accadeva che volevo procurarmi qualche conforto, mi faceva trovare solo desolazione e ulteriori tor­menti. Questa l'ho sempre considerata una delle grazie più grandi che Dio mi abbia fatto, insieme a quella di non liberarmi mai del prezioso tesoro della Croce, nonostante il cattivo uso che ne ho sempre fatto e che mi rendeva indegna di tanto bene. Per Lui mi sarei voluta sciogliere d'amore, di gratitudi­ne e di ringraziamenti nei confronti del mio Libera­tore. Era con questi sentimenti e in mezzo alle deli­zie della Croce che dicevo: « Cosa darò al Signore in cambio del grande bene che mi ha fatto? O mio Dio, quant'è grande la vostra bontà nei miei con­fronti! Volete farmi mangiare seduta alla tavola dei santi le stesse carni con cui li avete nutriti, me, che sono solo una miserabile peccatrice, indegna del de­lizioso cibo dei vostri cari e più fedeli amici».

86. «Senza il santo Sacramento e la Croce non potrei vivere». Una copia perfetta di Gesù crocifisso
« Inoltre Voi sapete che, senza il santo Sacramento e la Croce, non potrei vivere né sopportare il protrarsi del mio esilio in questa valle di lacrime, dove non ho mai desiderato che le mie sofferenze diminuisse­ro». Infatti, più il mio corpo ne era sfiancato e più il mio spirito provava gioia e riusciva a unirsi al mio Gesù sofferente, non avendo desiderio più intenso che divenire un'autentica e perfetta copia e rappre­sentazione del mio Gesù crocifisso. Mi rallegravo quando la sua sovrana bontà impiegava una moltitu­dine di operai per lavorare secondo i suoi ordini al compimento di quest'opera. E quel Sovrano non si allontanava dalla sua indegna vittima, di cui cono­sceva bene la debolezza e l'impotenza nel fare qual­cosa di buono, e talvolta mi diceva: «Ti faccio l'o­nore, figlia cara, di servirmi di strumenti così nobili per crocifiggerti. Il mio Padre eterno mi mise nelle mani crudeli di boia senza pietà, che mi avrebbero crocifisso, e a tal fine io mi servo per ciò che ti con­cerne di persone che mi sono devote e consacrate. A costoro ti ho consegnata e, affinché si salvino, vo­glio che tu mi offra tutto ciò che ti faranno soffri­re». Io lo facevo con tutto il cuore, offrendomi sem­pre di portare il peso del castigo per le offese fatte a Dio a causa mia, sebbene, a dire il vero, non credes­si che si poteva commettere alcuna ingiustizia facen­domi soffrire, dal momento che non era possibile farmi soffrire quanto meritavo. Confesso che mi rende così felice parlare della gioia della sofferenza che scriverei volumi interi senza poter esaurire mio desiderio, e che il mio amor proprio trova gran­de soddisfazione in questo genere di discorsi.

87. Trascorre cinquanta giorni senza bere in onore del­la sete di Nostro Signore sulla croce
Una volta, il mio Sovrano mi fece capire che voleva che mi ritirassi in solitudine, non in quella del de­serto come aveva fatto Lui, ma in quella del suo sa­cro Cuore, dove voleva onorarmi con i suoi più fa­miliari incontri, come un amante fa con la sua ama­ta. Li mi avrebbe dato nuovi insegnamenti sulle sue volontà e mi avrebbe dato anche nuove forze per portarle a compimento, perché avrei dovuto com­battere fino alla morte e sostenere ancora attacchi di molti e potenti nemici. Per questo mi chiedeva che, per onorare il suo digiuno nel deserto, trascor­ressi cinquanta giorni a pane e acqua. L'obbedienza non me lo volle permettere, per timore di farmi ap­parire stravagante, e Lui mi fece capire che gli sa­rebbe stato comunque gradito che trascorressi cin­quanta giorni senza bere, in onore della sete ardente che aveva sempre sopportato per la salvezza dei pec­catori e quella che il suo sacro Cuore aveva sempre patito sull'albero della Croce. Mi venne permessa questa penitenza, che mi parve più dura dell'altra, considerata la grande arsura da cui ero sempre tor­mentata, che mi costringeva a bere spesso grandi tazze d'acqua per dissetarmi.

88. E tormentata dalla disperazione, dall'orgoglio e dalla gola
Soffrivo in quel periodo per le dure lotte contro il demonio, che mi tentava soprattutto sul fronte della disperazione, mostrandomi che una creatura cattiva come me non poteva pretendere un posto in paradi­so, perché già qui in terra non ne avevo nell'amore del mio Dio, di cui sarei quindi stata privata per l'e­ternità. Questo mi faceva versare torrenti di lacri­me. Altre volte mi tentava con la vanagloria e poi con quell'abominevole peccato della gola. Mi faceva sentire una fame spaventosa e poi mi mostrava tutto quanto è più idoneo a soddisfare il palato. E questo accadeva durante i miei esercizi, il che era per me un tormento indicibile. Questa fame mi durava fin­ché entravo in refettorio, del quale provavo subito un tale disgusto, che dovevo farmi grande violenza per mangiare un po'. Non appena mi alzavo da tavo­la, la fame ricominciava più violenta di prima. La mia superiora, cui non nascondevo nulla di quanto accadeva in me, per via della grande paura che ho sempre avuto di essere ingannata, mi ordinò di an-darle a chiedere da mangiare quando ero attanaglia­ta dai morsi della fame. Lo facevo con grandi sforzi, a causa del grande imbarazzo che provavo. E la su­periora, invece di mandarmi a mangiare, mi mortifi­cava e mi umiliava molto, dicendomi che dovevo te­nermi la fame per saziarla quando le altre andavano al refettorio. Poi mi ritrovavo in pace con la mia sofferenza. Una volta, non mi lasciarono terminare la penitenza della sete e, dopo che ebbi obbedito, mi consentirono di ricominciare. Trascorsi così cin­quanta giorni senza bere, come facevo ogni venerdì. Ero del pari contenta sia che mi accordassero sia che mi rifiutassero ciò che chiedevo; mi bastava ob­bedire.