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Sabato, 20 aprile 2024 - Misteri gaudiosi - Beata Chiara Bosatta ( Letture di oggi )

Sant'Antonio di Padova:Come l'uomo esteriore vive di pane materiale, così l'uomo interiore vive del pane celeste, che è la Parola di Dio.
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Vita di Santa Margherita Alacoque



Alacoque

Vita di Santa Margherita Alacoque - Parte 22



73. Poiché all'inizio aveva opposto resistenza, il sacri­ficio le viene imposto in condizioni più dolorose
La vigilia della Presentazione, questa divina Giu­stizia mi apparve armata in modo così terribile, che ero fuori di me e, non potendo più opporre resisten­za, mi fu detto come a san Paolo: «E duro recalci­trare contro gli strali della mia giustizia! Poiché mi hai opposto tante resistenze pur di evitare le umilia­zioni che dovrai soffrire per questo sacrificio, te le raddoppierò. Infatti, ti chiedevo solo un sacrificio segreto; ora lo voglio pubblico e, al contempo, estra­neo a ogni ragionamento umano e unito a circostan­ze così umilianti, che ti saranno motivo d'imbarazzo per il resto della tua vita, sia dentro te sia di fronte agli uomini. Così imparerai cosa vuol dire opporre resistenza a Dio». Lo capii bene, ahimè, perché mai mi sono trovata in tale stato; ecco alcune piccole co­se, ma non tutto. Dopo l'orazione della sera non mi fu possibile uscire insieme alle altre e rimasi nel co­ro fino all'ultimo momento della cena, piangendo e gemendo di continuo. Andai poi a fare la piccola re­fezione perché, essendo la vigilia della Presenta­zione, era giorno di digiuno. Dopo essermi trascina­ta a viva forza nella sala della comunità, mi trovai così fortemente sospinta a fare questo sacrificio ad alta voce, nel modo in cui Dio aveva detto di voler­lo da me, che fui costretta a uscire per recarmi a chiedere il permesso alla superiora, che allora era malata. Confesso che ero talmente fuori di me, che mi pareva di essere con piedi e mani legati, priva di ogni libertà sia dentro sia fuori, a parte le lacrime che versavo in abbondanza, pensando che erano la sola espressione di quanto soffrivo. Mi vedevo come la peggiore criminale della terra, trascinata in catene al luogo del mio supplizio. Vedevo pure questa san­tità di Dio, armata degli strali della sua giusta colle­ra, pronta a scagliarli per gettarmi nell'abisso, così mi pareva, di quelle fauci spalancate dell'inferno, che vedevo aperte e pronte a inghiottirmi. Mi senti­vo bruciare da un fuoco divorante, che mi penetrava fino al midollo, e tutto il mio corpo era in preda a un grande tremito. Non riuscivo a dire altro che: «Mio Dio, abbiate pietà di me, in virtù della gran­dezza della vostra misericordia». E per tutto il resto del tempo, gemevo sotto il peso del mio dolore, sen­za poter trovare la forza di raggiungere la superiora, dalla quale arrivai verso le Otto, quando una sorella che mi aveva trovata mi condusse da lei. La superio­ra fu molto sorpresa al vedermi in quello stato, che non riuscivo neanche a esprimere, pur credendo che lo si capisse vedendomi, sebbene non fosse vero. La superiora, la quale sapeva che solo l'obbedienza avrebbe avuto potere su quello spirito che mi teneva in tale stato, mi ordinò di raccontarle la mia pena. Le raccontai del sacrificio di tutto il mio essere che Dio voleva gli facessi, davanti a tutta la comunità, e il motivo per cui me lo chiedeva. Non riferirò quel motivo, per timore di ferire la santa carità e, al con­tempo, il Cuore di Gesù Cristo, da cui questa cara virtù nasce. E il motivo per cui non vuole che la s'intacchi neanche un po', qualunque pretesto venga a tal fine addotto.

74. La notte d'agonia
Infine, avendo fatto e detto ciò che il mio divino Sovrano voleva da me, in casa se ne parlò e vennero espressi diversi pareri. Lascio tutte queste circostan­ze alla misericordia del mio Dio. Ma credo di poter assicurare che mai avevo sofferto tanto; neanche se avessi messo insieme tutte le sofferenze fino ad allo­ra patite e tutte quelle che ho patito poi e tutte in­sieme mi fossero durate fino alla morte, non sarebbe paragonabile a ciò che dovetti sopportare quella not­te, con cui Nostro Signore volle gratificare la sua in­degna schiava, per rendere onore alla notte dolorosa della sua passione, sebbene la mia ne fosse solo un piccolo assaggio. Venivo trascinata da una parte al­l'altra, in condizioni di terribile smarrimento. Quella notte, quindi, trascorse fra i tormenti che Dio mi mandava e senza riposo, fin quasi all'ora del­la santa messa, quando mi pare di avere udito que­ste parole: «Finalmente la pace è fatta e la mia san­tità di giustizia è soddisfatta dal tuo sacrificio in omaggio a quello che io feci al momento della mia Jncarnazione nel seno di mia Madre. Il merito di questo mistero ho voluto unirlo e rinnovarlo con quello che tu mi hai fatto, applicandolo in favore della carità, come ti ho già spiegato. Perciò non devi pretendere più nulla per quello che potrai fare e sof­frire, né al fine di accrescere i tuoi meriti, né al fine di soddisfare penitenze o per altri motivi, avendo tutto sacrificato e messo a mia disposizione a van­taggio della carità. Quindi, a mia imitazione, agirai e soffrirai in silenzio, senza altro interesse che la gloria di Dio, la quale si compirà quando il regno del mio sacro Cuore sarà edificato in quello degli uomini, cui voglio manifestarlo per mezzo tuo».

75. Continua a soffrire per placare la giustizia di Dio
Il mio Sovrano mi diede questi santi insegnamenti dopo che l'avevo ricevuto durante la comunione, ma non mi tolse dal mio stato di dolore, nel quale sentivo una pace inalterabile, grazie all'accettazione di tutto ciò che soffrivo e mi veniva mostrato che avrei sofferto sino al giorno del Giudizio, se questa era la volontà del mio Dio. Lui non mi fece più ap­parire agli occhi degli altri se non come oggetto di contraddizione, come una fogna di rifiuti, disprezzo e umiliazioni, che vedevo con piacere piovermi ad­dosso da ogni parte, senza ricevere consolazione né dal cielo né dalla terra. Pareva che tutto cospirasse per annientarmi. Venivo continuamente interrogata e le poche risposte che mi venivano cavate a forza, servivano solo come strumenti per accrescere il mio supplizio. Non potevo mangiare, né parlare, né dor­mire, e ogni mio riposo e ogni mia incombenza era rimanere prosternata davanti al mio Dio, la cui so­vrana grandezza mi teneva annientata nell'abisso più profondo del mio nulla, sempre piangendo e ge­mendo per chiedergli misericordia e allontanare gli strali della sua giusta collera. L'incarico che avevo allora, tenendo continuamente occupati il mio corpo e il mio spirito, mi causava un tormento insopportabile; tanto più che, nonostante tutte le mie pene, il mio sovrano Maestro non mi consentiva la benché minima omissione, né voleva farmi dispensare dai miei doveri. Lo stesso era an­che per tutti gli altri doveri e l'osservanza delle re­gole, verso cui sentivo che la forza della sua potenza sovrana mi trascinava come una criminale al luogo di un nuovo supplizio. Ne trovavo ovunque ed ero così inghiottita e immersa nella mia sofferenza, che non avevo più spirito né vita, tranne che per vedere quanto di doloroso mi accadeva. Tutto ciò non mi causava il minimo moto d'inquietudine e tristezza, anche se in mezzo a tutti questi tormenti ero sem­pre portata verso ciò che era più contrario alla mia natura immortificata e opposto alle mie inclinazioni.

76.Il refettorio come luogo di punizione
Si accorsero che non mangiavo e ricevetti molti rim­proveri dalla superiora e dal confessore, che mi ordi­narono di mangiare tutto quanto mi veniva presen­tato a tavola. Quest'obbedienza era al disopra della mie forze, ma Colui che, nel bisogno, mai faceva mancare il suo aiuto, mi diede anche in quell'occa­sione la forza di sottomettermi senza repliche e scu­se. Dopo che avevo mangiato, però, dovevo vomi­tare quanto avevo ingerito e, protraendosi a lungo tale situazione, finii per avere sempre mal di stoma­co. I dolori erano terribili, al punto che non riuscivo a trattenere quel poco che avevo ingerito. Decisero allora di modificare l'obbedienza e mi permisero di mangiare secondo le mie possibilità. Devo confessare che, da quel momento in poi, il ci­bo è sempre stato per me un supplizio e andavo al refettorio come a un luogo di punizione, cui mi ave­va condannata il peccato. Per quanti sforzi facessi nel prendere con indifferenza il cibo che mi veniva presentato, non riuscivo a fare a meno di scegliere quello più comune, essendo il più conforme alla mia povertà e al mio nulla, come pane e acqua, che per me bastavano. Il resto era di troppo.