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Giovedi, 25 aprile 2024 - Misteri luminosi - San Marco ( Letture di oggi )

Sant'Antonio di Padova:Come il timone tiene la barca nella giusta direzione e le impedisce di deviare, e in esso è riposta la maggiore capacità di condurre in porto la barca, così l'amore fraterno guida la comunità dei fedeli affinché non devii, e la conduce al porto della sicurezza: perché dov'è carità e amore, lì c'è anche la comunità dei santi.
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Meditazioni sulla vita di San Filippo Neri



San Filippo neri



I GIOCHI DIDASCALICI

La suora verniciata da santa.

Tutti i giochi di S. Filippo possono essere considerati didascalici in quanto insegnano qualche cosa, ma questo insegnamento o è diretto, o si può ricavare dal lettore.

Un insegnamento si può ricavare anche da quei giochi che noi abbiamo chiamati della sanità e che scattano spontanei senza nessun fine prestabilito.

I giochi che raggruppiamo in questa sezione sono alcuni di quelli che S. Filippo trovava con la finalità precisa di insegnare qualche cosa, una verità.

Il gioco, diciamolo pure così, di quel filosofo che si faceva vedere in pieno giorno con una lanterna in mano, come cercando qualche cosa, e precisamente l'uomo, voleva insegnare che un uomo veramente tale, è tanto raro da cercarsi con la lanterna come un oggetto perduto e quasi introvabile.

C'era una volta, ma davvero, non come si dice a principio di certe storielle, una suora che passava per santa e se ne dicevano cose meravigliose in Roma ed anche fuori: si raccontavano miracoli e predizioni del futuro, come se essa leggesse in un libro stampato.

Si presentava poi con una faccia, con un atteggiamento da parere una di quelle madonne, spiccicata da una tavola di altare, che fanno piangere e che innamorano. Parlava poi con tanta unzione da compungere il peccatore più ostinato.

Qualcuno però, che aveva veramente lo spirito di Dio, sentiva al fiuto che quella suora non era una santa, magari era una divota di quelle che si trovano dappertutto, ma non si poteva addurne prove.

La cosa fu riferita al Pontefice, che pregò Filippo di vedere che c'era di vero in quella faccenda.

Il Santo accettò e, un bel giorno, si presentò al convento della suora con le scarpe bagnate ed infangate, quali potevano essere in una Roma dove non esisteva ancora il servizio di nettezza urbana.

Dopo le prime parole convenzionali di presentazione, Filippo si sedette in parlatorio.

Alla suora, che domandava la ragione della visita e che, forse, si aspettava l'inizio di una di quelle conversazioni mistiche che fanno andare in sollucchero le divotelle sentimentali, disse, con affettata sgarbatezza:

- La prego di tirarmi dai piedi queste scarpe infangate e pulirmele per bene e poi passeremo al resto.

Che rispose la suora, il documento da noi consultato non lo dice e, forse, parole non ne disse, tanto restò male, ma il volto e tutto l'atteggiamento manifestavano una ribellione risentita, offesa.

Naturalmente non solo non levò le scarpe ma fece chiaramente capire che Filippo se ne poteva andare.

Il Santo infatti andò via presto e riferì al Papa che quella suora era tutt'altro che una santa, perché le mancava la base della santità cioè l'umiltà.

Una santa vera.

Una delle più frequenti tentazioni delle anime buone, e talvolta anche dei santi, è quella di dubitare di salvarsi è una tentazione che si sviluppa dalla virtù esasperata della umiltà.

Se la tentazione non si combatte potrebbe arrivare fino alla disperazione.

Queste anime buone si vedono tanto indegne e peccatrici che non credono possibile salvarsi o per lo meno difficilissimo: esse non considerano profondamente la misericordia di Dio o non vi fanno caso, appunto sotto il fa-_ scino malefico della tentazione.

La suora di cui parliamo era una certa, Suor Scolastica Gazzi, del monastero di S. Marta in Roma.

Filippo, che conosceva l'intimo travaglio della santa religiosa, andò al monastero, la fece chiamare alla grata del parlatorio e dopo qualche complimento, le disse subito

- Tu sei quella Suór Scolastica che dubita di salvarsi, perché si vede affogata in un mare di peccati e di male?

- Disgraziatamente, Padre, sono io e così non fosse ed io non fossi mai nata!

- Ebbene Scolastica io sono venuto a bella posta a darti una bella notizia e cioè che tu devi stare allegramente, poiché il Paradiso è assicurato, come se tu avessi in mano un documento firmato da Nostro Signore.

- Il documento che io ho nella coscienza, reverendissimo Padre, è che io sono a questo mondo, ma come se avessi già tutti e due i piedi sul pavimento dell'inferno.

- Io invece ti assicuro di nuovo che il Paradiso è tuo e solo tu devi rispondere a qualche mia domanda.

- Dite pure, Padre, risponderò ma sarò convinta sempre come sono.

- Dimmi, Scolastica, per chi è morto Gesù Crocifisso?

- Per i peccatori.

- E tu chi sei una santa o una peccatrice?

- Io santa? Io sono una delle peggiori peccatrici.

- Dunque sei a posto, Gesù è morto per te e il Paradiso da lui conquistato è tuo.

Un'onda di gioia invase l'anima di Suor Scolastica, che mai più fu tormentata dalla tentazione.

La trappola socratica.

Socrate, che abbiamo nominato altrove, aveva un suo metodo di ragionare, che pareva una trappola nella quale egli adagio adagio chiudeva i suoi contraddittori.

Egli faceva come un abile giocatore che ti fa fare un passo innanzi per calcolo ma poi te ne fa fare due indietro e proseguendo in questo modo nella polemica, ti riduceva con le spalle al muro: ecco il suo sistema.

Il contraddittore esponeva una sua idea e Socrate non ribatteva subito dicendo, non è vero, ma al contrario, concedeva: si è vero ma aggiungeva ancora, però...

E tosi di seguito ad ogni proposizione del contraddittore consentiva sempre, e faceva fare il passo innanzi ma poi aggiungeva: «si ma, però, tuttavia, sebbene, pure, non di meno,» e demoliva ad uno ad uno tutti gli argomenti dell'avversario come uno che spenna una gallina, una penna per volta, senza far vedere che vuol togliere tutte le penne, ma a questo arrivava.

Il ragionamento finiva sempre così che il contraddittore preso nella trappola come un topo, finiva sempre per arrendersi, faceva omaggio al filosofo ed aggiungeva: Avevi ben ragione tu, divino Socrate.

S. Filippo usava molto questo ragionamento e ne abbiamo visto una prova nella pagina precedente a proposito di Suor Scolastica, ma ne abbiamo esempi più belli e sviluppati, deliziosissimi. Eccone uno.

Francesco Zazzara, figlio di Monte Zazzara, apparteneva ad una distinta famiglia, devota di S. Filippo. Francesco, giovinetto ancora, era stato molto vicino al Santo e poi s'era dato allo studio delle leggi, con grande fervore.

Il giovane, intelligente, ambizioso, capacissimo, sognava una carriera luminosa e si preparava a prendere d'assalto le più ambite cariche sociali: era un mondo di sogni, che però sarebbe sfumato come un sogno.

Filippo, che voleva bene al giovane e, d'altra parte, ne conosceva la generosità, volle avviarlo ad una meta più bella ed ecco che un bel giorno, venuta l'occasione propizia, non gli disse come avrebbe fatto altri, che egli sognava, ma preparò la trappola e la mise in azione.

Fu insolitamente affettuoso e cominciò a dire:

- Beato te, Francesco, che studi e poi un giorno sarai dottore e gran dottore...

L'altro, credendosi compreso ed ammirato, gongolava di gioia.

- Guadagnerai poi molto danaro e porterai innanzi la tua famiglia, anzi la innalzerai.

Francesco si gonfiava ancora.

- Poi comincerai ad avere cariche onorevoli e reddititizie... poi arriverai alle cariche più grandi... diverrai famoso e sarai conosciuto dappertutto.

Ad ognuna di queste proposizioni il giovane beveva beveva...

Poi Filippo proseguì:

- Certo, potrai entrare in prelatura e avrai le più belle mansioni e non è difficile essere Cardinale, dal momento che tanti altri, meno preparati di te, ci sono arrivati.

A questo punto il giovane faceva qualche smorfia di falsa modestia, ma, in fondo, credeva di potere arrivare fin là e si compiaceva.

Filippo arrivò al colpo finale.

- E poi potresti essere Papa... perché no?

Il giovane qui fece cenno di no con la testa come per negare, ma un po' ci credeva e un po' non ci credeva.

- Certo, non si può essere mai sicuri, ma i cardinali non sono migliaia, sono pochi, ma da questi pochi deve poi uscire il Papa e tu ricordi bene come il Beatissimo Papa che oggi felicemente regna era cardinale, ed è stato eletto quando nè lui nè gli altri se lo aspettavano.

Il giovane sentì il bisogno, per non parere un sognatore, vanitoso, ambizioso, di mostrare che ciò non era possibile e disse: no, questo no, Padre...

Tutto ciò però esternamente ma internamente lui vedeva una possibilità... di arrivare anche così in alto, e lo si vedeva dal suo volto raggiante.

Filippo poi parlava in una maniera come se fosse convinto, anzi come se avesse un po' di santa invidia e gli dolesse di essere innanzi negli anni e non poter percorrere anche lui una sì bella carriera.

Ma a questo punto del dialogo, il suo volto si cambiò: si fece serio, quasi addolorato e, dopo aver cinto il collo del sognatore con un braccio, gli accostò le labbra all'orecchio e disse:

- E poi, e poi, e poi?

Quella deviazione così rapida del discorso, fu come prendere per i capelli uno affondato nel sonno, e scuoterlo. Quel « e poi, e poi, e poi» fece passare dinanzi allo sguardo del giovane la fine della vita, la morte, la dimenticanza degli uomini e di ogni cosa!

Il giovane cambiò e invece di essere papa, diventò uno dei pazzi di Filippo.

Un «bravo» alla rovescia.

Un giovane, come quello del Crocifisso di cui abbiamo parlato innanzi, andò a confessarsi ma neppure lui aveva buone disposizioni ed anche con lui mise in movimento la trappola socratica.

Il giovane cominciò a dire i suoi peccati, ma per un senso di orgoglio, esaltava la bravura che aveva messa nelle sue birbonate e metteva in mostra il suo ingegno.

L'orgoglio arriva anche a questo.di vantarsi dell'ingegnosità del male ed i giornalisti moderni intendono, can nessun senso morale, di far vedere che ammirano una tale cosa quando parlano di «delitto perfetto», come se un delitto potesse essere un'opera d'arte.

Filippo, col suo intuito, colse subito il fenomeno psicologico del disgraziato e dopo l'accusa dei peccati gli disse - Si vede che sei... bravo... Benissimo, hai ingegno nella zucca.

Il giovane si compiacque di quella ammirazione e disse qualche altra cosa con più lusso di particolari.

Dopo di ciò il Santo disse a quello stolto:

- Rallegramenti e buone imprese... Puoi andar via. - Ma, e l'assoluzione, Padre. me la da?

- Ma che ci serve l'assoluzione e adesso tu vorresti mutar vita? Vuoi smettere una così bella carriera? Non lo devi fare! Tu sei a buon punto per arrivare definitivamente e gloriosamente alla fine di una così bella vita e cioè sei a buon punto per arrivare alla galera, magari, al capestro qui, e poi all'inferno, nell'altro mondo, con molto onore, con molta gloria.

Allora finalmente quello sciocco comprese, poté vedere la sua stupida vanteria e fare una discreta confessione.

Un aspersorio di nuovo genere.

Si presentò, un giorno, a P. Filippo un giovane accompagnato da una giovane, ch'era sua sorella.

Il giovane con volto addolorato disse:

- P. Filippo, questa mia sorella, da parecchio tempo è posseduta dal demonio ed ha cambiato la casa in un inferno: la notte si alza e va gridando per tutte le stanze, ma ciò sarebbe minor male.

Rompe piatti, proseguì il giovane, fracassa tutto ciò che le viene a mano e non c'è cosa buona più in casa nostra: creda pure, non ne possiamo più.

P. Filippo fece alcune domande, guardò la disgraziata e poi, chiamato il fratello in disparte gli disse:

- Qui il diavolo è innocente questa volta: vostra sorella è in preda ad un brutto capriccio.

Se ciò si fosse avverato ai nostri tempi egli avrebbe detto che la giovane era un'isterica, una fintona, che aveva qualche scopo per fare quella commedia, come, per esempio, quello di aver presto marito.

- Ogni volta che vostra sorella, disse il Santo, fa tali pazzie, staffilatela ben bene e vedrete che guarirà.

La medicina tu efficace e quell'imprudente non solo non fece più le solite pazzie, ma confessò anche la ragione per cui aveva agito così, ragione che prima non aveva voluto palesare.

A proposito di ossessi ed ossesse, un'altra volta similmente presentarono a S. Filippo una donna come posseduta dal demonio: Filippo riconobbe che era pazza.

Filippo compera un medico per pochi soldi.

S. Filippo tra i suoi detti faceti, spiritosi, diceva questo: non toccate le borse!... Non si possono guadagnare contemporaneamente l'anima e la borsa! Lasciate stare la borsa, se volete guadagnare le anime.

Egli mostrò, in tutti i lunghi anni, un disinteresse veramente eroico e si narrano tanti episodi ma noi ne riferiremo qualcuno.

Ricordate che S. Filippo, per annunziare la morte prossima al buon Costanzo Tassone, aveva pensato quello strano espediente di far fingere ai due giovanetti di essere morti, distesi per terra?

Orbene quel Tassone amava tanto S. Filippo, che l'aveva convertito e condotto a Dio dalle vie del mondo. Quando si accorse che doveva morire, fece testamento e poi sottoscrisse un documento con cui lasciava al Santo, come segno di riconoscenza una forte somma di danaro. Qualche tempo dopo la morte del brav'uomo, Filippo seppe la notizia e ricevette il documento.

Senza pensarci per nulla, invece di ringraziare ed andare a mettere il documento al sicuro, disse a chi era venuto per quella commissione che rifiutava il danaro, non poteva accettarlo, non già per un falso sentimento ma perché non usava accettare nulla da nessuno.

Prese il documento e lo andò a mettere come coperchio sopra un vaso di marmellata per difendere la marmellata dalle mosche e da altri animali golosi.

Or sempre a proposito di questo eroico disinteresse, un giorno, venne a confessarsi dal santo un medico, certo Domenico Saraceni di Colloscipoli presso Narni; fu, in seguito, uno dei medici più famosi del suo tempo.

Fatta la confessione, il giovane si mise le mani in una tasca, frugò e non trovò niente e così in tutte le tasche. Restò male Domenico e si scusò dicendo al confessore: - Perdonatemi, Padre, io non ho portato danari! Dalle sue parti usava offrire qualche cosa al confessore dopo la confessione.

- Orsù, disse Filippo, di colpo, per quei danari che mi volevate dare, voglio che mi promettiate di tornare sabato a confessarvi da me.

Una vera trappola anche questa: egli dette a credere al giovane di accettare e di aver diritto al danaro.

Il giovane ritornò, si affezionò a Filippo, come se lo avesse... comperato.

Ci fu una lunga amicizia ed il Saraceni, per molto tempo ammalato di depressione psichica e di malinconia, non trovò altro rimedio che venire da Filippo.

Il Santo lo guarì con quelle sue trovate allegre e con le sue dolci parole.

Quanta fosse la venerazione del Saraceni, diventato medico famoso e anche filosofo, come abbiamo detto, si rileva da questo fatto.

Nel 1594, un anno prima della morte del Santo, come egli depone poi nel processo, avendo saputo che era ammalato si offrì di servirlo, anche di notte.

Il Padre accettò l'offerta e lui si fermò per un mese circa a servirlo.

Una sorpresa piacevole.

Un insegnamento altissimo è nel gioco didascalico che qui riferiamo.

Il nobile Salviati grande peccatore, e poi penitente di Filippo, doveva andare all'Ospedale di Santo Spirito per quei soliti doveri di carità.

Egli talvolta, si fermava nella chiesa detta anch'essa di Santo Spirito, ed ora Parrocchia.

Gian Battista si tratteneva molto nelle sue visite al Santissimo Sacramento e, spesso, oltre il tempo stabilito, in modo da trascurare o ritardare il servizio agli ammalati.

Una volta egli era estatico dinanzi al Tabernacolo e non accennava per nulla a dover mettere termine alla sua visita.

S. Filippo gli combina uno scherzo.

Dice ad uno dei suoi che lo accompagnava: Guarda, va dietro a Gian Battista in punta di piedi, sciogli il mantello che ha, e poi infilagli il grembiule.

L'altro fa, con grande abilità, la commissione.

Dopo molto tempo, Salviati ritorna in sé, fa per prendere il mantello dai lembi ma non li trova, gli viene in mano invece il grembiule.

Capisce tutto, ma finge di non essersi accorto di nulla. Fuori trova S. Filippo che gli sorride e gli dice: Gian Battista, Gian Battista, ricordati che lasciare Dio per la carità non è lasciarlo, ma trovarlo ancora.

“Fatebenpervoi”

C'era in Roma un personaggio divenuto famoso, popolare, ch'era designato con questo nomignolo e di cui nessuno o quasi nessuno conosceva il nome vero.

Era un esaltato, un impulsivo, che poteva parere un entusiasta ed un uomo intelligente mentre non l'era.

Era, anzi, un ingenuo, che la maggior parte credevano un uomo di consiglio.

Voleva essere un pubblico moralizzatore, e perciò faceva il predicatore ambulante e molto spesso aveva in bocca questa espressione: « Fatebenpervoi ».

Tutti ne parlavano in Roma e si arrivò a tal punto che non c'era chi dubitasse che Fatebenpervoi era proprio un santo autentico.

Tra le altre imprese che si proponeva c'era quella di convertire tutte le meretrici di Roma, le quali a quel tempo, e proporzionatamente alla popolazione, erano assai più numerose di adesso: ed erano anche più potenti, perché avevano protettori palesi, senza che legge alcuna intervenisse.

Fra le altre, c'erano quelle di classe, diciamo così, più alta e che erano chiamate le «onorate meretrici» tenute quasi come una specie di matrone.

Ora, una volta, mentre Fatebenpervoi illustrava il suo programma, in un pranzo a cui era stato invitato anche S. Filippo, avvenne un colpo di scena.

S. Filippo ascoltò per un pò di tempo, ma niente convinto, e un sorriso intelligente gli si agitava sulle labbra egli sapeva qualche cosa.

Ad un tratto, il Santo rivolse la parola al predicatore e disse:

- O Tonino, se fosse vero quel che si dice, beato te. Tutti quelli che non sapevano il nome del moralizzatore di meretrici lo seppero così quella sera.

S. Filippo non credeva, come si vede, alla santità dell'uomo e a tutto il resto e, tanto meno, alla possibilità di convertire le meretrici di Roma, neppure con una missione di un anno intero.

Colei che ci ricorda questa scena è Cassandra Senese, la quale aiutava ad allestire il banchetto e a servire a tavola: essa depose nel processo.

Pochi giorni dopo si seppe che Fatebenpervoi, il missionario delle meretrici, era scappato con una donna che poi sposò.

L'avvocato degli zingari.

Da quanto abbiamo detto finora, si potrebbe pensare che S. Filippo fosse un uomo solo bontà, brio, condiscendenza, un uomo insomma latte e miele: no, era un uomo anche molto forte che non esitava a rischiare la libertà e la vita.

Ci sono molti episodi ma noi ne riferiamo due solamente molto movimentati e che non mancano di una certa blanda luce di umorismo.

Attori di un episodio furono gli zingari e non c'è da meravigliarsi: nella vita del Santo entrarono individui di tutte le categorie, senza distinzione, ed anche gli ebrei e gli zingari.

Gli zingari, per un certo tempo, avevano anche fama di santoni, almeno per persone ingenue, e si fingevano pellegrini che andavano al Santo Sepolcro in Gerusalemme a pregare per i loro benefattori: così coperti, alleggerivano le persone di quanto potevano; danari ed oggetti.

Al tempo però di cui parliamo, erano conosciuti più veramente come chiromanti, indovini, specialisti di polveri miracolose o misteriose contro mali di ogni specie, conoscitori di scongiuri contro la iettatura, il malocchio ed altre cosuccie di questo genere.

Avevano anche dei mestieri... onesti, come quello, per esempio, dì calderari e aggiustatori di stoviglie: questi mestieri però coprivano il mestiere principale, ch'era quello di rubare.

Stati e città, per tanto, cercavano di difendersi dalla venuta degli zingari.

Anche a Roma erano stati fatti decreti contro di loro, ed uno di questi decreti del 1566 comminava, tra le altre pene, anche quella della frusta, se essi non fossero andati via in un certo giro di giorni.

A Roma si facevano preparativi per la spedizione che condusse poi alla vittorìa di Lepanto nel 1571, e molti zingari erano arrivati in città.

I preparativi per la spedizione contro i Turchi avevano messo l'entusiasmo negli animi e, come nei preparativi di tutte le guerre, i più dicevano: armiamoci... e andate.

Si reclutavano pertanto, con grande difficoltà, persone per le navi e gli equipaggi.

Nella penuria dunque di uomini per remare ed altri servizi di navigazione, si prendono quegli zingari, che erano arrivati da un castello degli Orsini, sfrattati per le loro imprese e si chiudono in carcere a Tor di Nona per essere poi mandati sulle navi.

Mogli, figli, vecchi, malati di quegli zingari, che non potevano essere utilizzati e non furono arrestati, cominciarono allora a percorrere la città, a chiedere pietà e a commuovere il popolo.

Ci vuole poco a commuovere quel gran sentimentale che è i1 popolo, ma quella volta c'era un giusto e grande motivo, per cavare lacrime dagli occhi della gente.

La violazione di un diritto umano era palese, e gli zingari, almeno questa volta, avevano ragione.

Si organizzò, senza quasi volerlo, quella che oggi noi chiamiamo protesta e personaggi grandi e qualificati si adoperarono per la liberazione dei carcerati; sappiamo così di un certo frate conventuale Francesco Visdomini, chiamato « Franceschino » di un fra Paolino da Lucca domenicano, molto considerato dal popolo.

Filippo si pose anche egli tra i protestanti, che fecero pervenire le loro rimostranze alle autorità: la loro azione ebbe successo e gli zingari furono liberati: le autorità dovettero ingoiare un boccone amaro, e qualche giorno dopo scoppiò la bomba.

In tutti i crocicchi, si diceva, un pò sottovoce: sapete ch'è successo? Hanno punito quelli che si sono adoperati per liberare gli zingari, hanno mandato fuori anche « Franceschino ».

Toccare Franceschino allora, idolo del popolo, era come toccare oggi un campione dello sport... Ci si rimette sempre. I figlioli spirituali di Filippo, com'è naturale, temevano per lui e si dicevano: vedrete che manderanno via anche P. Filippo.

La paura era grande ma egli non aveva paura: quello che ebbe paura fu il governo e Filippo non fu toccato e restò.

Mai paura.

Una minaccia più concreta e più grave ebbe a soffrire il Santo, ma egli l'affrontò impavidamente.

Una signora di altissimo casato e di grande ingegno e cultura, Lavinia Orsini della Rovere era vecchissima, ammalata e se ne aspettava la morte.

Filippo la visitava molto spesso e l'assisteva per prepararla al grande passo, tanto più che era stato proprio il Santo a riportarla alla fede dall'errore dei protestanti. Era ricca Lavinia e un suo nipote, Giulio Cesare Colonna, ne aspettava... piamente la morte e l'eredità.

Or vedendo questo signore che Filippo andava e veniva dalla casa di Lavinia, pensò che volesse carpire un testamento.

A principio sopportò, ma poi mostrò chiaramente di non gradire più la presenza del Santo, ma Filippo fece il sordo.

Arrivò a dare ordine di non far più passare Filippo quando veniva, ma l'autorità dell'uomo di Dio la vinceva sulla autorità del signorotto e passava sempre e sostava quanto voleva presso il letto dell'inferma.

Seguirono minacce più gravi e villanie di ogni genere, e la faccenda si seppe anche in casa.

I figlioli cominciarono a scongiurare Filippo, trepidanti.

- Padre, non andate più dalla signora Lavinia: succederà qualche cosa di grave, perché voi conoscete che arnese è quel tale.

- Succeda quel che vuole, mi dovesse pure ammazzare. E mette conto farsi ammazzare da un delinquente? - Beh, sappiate, disse un giorno, più seccato del solito Filippo: sappiate che la vecchia signora guarirà e vivrà ancora parecchio tempo e il giovane baldanzoso morirà prima di lei.

Queste parole furono come una condanna a morte non passò molto tempo e Giulio Cesare mori e la vecchia signora rifiorì, non certo come una giovinetta, ma rifiorì.

Si fecero meraviglie in Roma, ma ci si rideva anche era intervenuta la morte questa volta a mettere un umorismo che Filippo non ci aveva messo.

Fonte: SAN FILIPPO RIDE E GIOCA (GIUSEPPE DE LIBERO) - Libro scaricato dal sito www.preghiereagesuemaria.it