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Biografia di Santa Clelia Barbieri



Santa Clelia Barbieri



Il male di Clelia

La fede di Clelia era proverbiale, come il suo rac­coglimento. A volte, durante il lavoro di cucito, nel colloquio con le compagne, nelle visite al taberna­colo, sembrava astrarsi. Le braccia protese in alto, il volto infiammato... parlava con un essere invisibile. Erano le estasi. Le compagne dicevano: «Oh! Clelia ha il suo male... »; e aprivano le finestre... Questo stato si protraeva a volte per più di mezz'ora. Ci fu chi consigliò di portarla dall'arciprete di S. Ruffillo, nella periferia di Bologna, per una benedizione... In realtà, in quei momenti di esperienza mistica, comunicava con un interlocutore più forte, che sempre più diven­terà il protagonista della sua vicenda terrena. Clelia non uscì mai dal triangolo della canapa: S. Giovanni, Anzola, Castelfranco Emilia. Il suo fu il piccolo pendolarismo della gente che non ha mezzi di trasporto e solo vede, di quando in quando, qualche carrozza tra il polverone delle strade di campagna. Eppure la sua intuizione dei bisogni e la sua capacità di lettura degli eventi l'aiutarono a superare l'argine del fiume e l'orizzonte paesano.

Clima di fede

La figlia del bracciante e le sue compagne restano quello che sono, dove sono, come sono, poste a tempo pieno al servizio della comunità del villaggio. L'esperienza di tre anni nella casa del maestro non smentisce nulla del progetto iniziale, se mai ne precisa sempre più la matrice eucaristica, il rapporto vitale con Cristo e con la Chiesa, l'attenzione privilegiata ai piccoli, ai malati, ai poveri.

Nel Ritiro delle Budrie si respira un clima di fede, una vera fame e sete di Dio, un istinto missionario, pieno di creatività e di fantasia, quasi indifferente rispetto ai mezzi organizzativi, le cosidette strutture. C'è una nota costante di semplicità evangelica; la pura e santa semplicità, direbbe S. Francesco d'As­sisi, che è sorella della sapienza. Qualcosa di inimma­ginabile per noi che apparteniamo a una cultura sofi­sticata e complessa: un insieme di umiltà, di forza morale, di calma, di lucidità che caratterizza il porta­mento, l'abito, il linguaggio.

La stoffa di cui sono fatte queste ragazze si vede nelle emergenze storiche che non risparmiarono né il capoluogo persicetano, né i suoi dintorni rurali. I tumulti del giorno sette

Il 1° gennaio 1869 fu un capodanno inquietante, entrando in vigore l'imposta sulla macinazione dei cereali, in ragione di lire 2 per la bianca e di 0,80 per la farina gialla, ogni quintale. La legge, decisamente impopolare, che incideva sul già magro bilancio della povera gente, suscitò un'impressionante reazione a catena in tutta l'Italia settentrionale, segnatamente a Reggio, Parma e Bologna. La violenza dei moti rag­giunse il culmine a S. Giovanni, il giorno dopo l'Epi­fania: ancor oggi, nel persicetano, il «giorno sette» significa il dies irae.

Sulle ore 10, i rivoltosi - circa tremila - armati di bastoni, mannaie, falci e fucili, invasero il capoluogo, dirigendosi verso il palazzo comunale. Il sindaco Mariani, il pretore, il delegato di P. S., il maresciallo dei CC. tentarono con promesse di sedare la rivolta; il sopraggiungere di una colonna di dimostranti da Sala Bolognese, al rullo di tamburi, fece precipitare la situazione; e tutto fu inutile. Devastato il municipio, gettate dalle finestre masserizie, documenti d'archi­vio, oggetti di arredo, il guasto investì il telegrafo, l'ufficio del registro, l'esattoria, l'archivio della parte­cipanza, i negozi, gli spacci, le osterie, le case dei notabili.

Nelle prime ore del pomeriggio era alle porte di S. Giovanni in Persiceto, con due pezzi di artiglieria leggera, un battaglione di bersaglieri che - dopo lo squillo di tromba - entrarono a passo di carica, aprendo un fuoco micidiale. Alle 5 del pomeriggio la situazione era ristabilita, ma a quale prezzo! Sulla piazza e sulle strade, cosparse di ceneri, tizzoni, carte bruciate, rimasero dieci morti, fra cui due giovani fidanzati assolutamente estranei alla vicenda e nume­rosi feriti. Fonte di luce e di conforto

Seguirono giorni difficili. Il governo Menabrea aveva delegato i pieni poteri a Raffaele Cadorna, che insediò a Bologna il suo quartier generale. Truppe in pieno assetto di guerra stazionarono in Persiceto e dintorni, operando perquisizioni e arresti di centinaia di cittadini, in prevalenza braccianti e coloni.

Il villaggio delle Budrie ebbe la sua parte nel calice amaro:

«La forza pubblica - riferisce suor Vincenza - intervenne anche alle Budrie. Non so in quale giorno, vennero soldati a cavallo; e fu circondata la chiesa, quando la popolazione era dentro, per catturare i responsabili. Fu uno spavento generale; quelli che erano in chiesa, particolarmente le donne, diedero in urla e pianti suscitando uno scompiglio indescrivibile. La serva di Dio, che si trovava dentro, riuscì col suo prestigio e con la sua parola a tranquillare la popola­zione agitata e specialmente le donne, assicurando che nulla sarebbe avvenuto di grave. Ho sentito dire che qualcuno fu catturato e il parroco stesso dovette seguire fino a S. Giovanni il comando della forza pub­blica, ma fu lasciato subito in libertà».

Non desta meraviglia che, in quei giorni di timore e di amarezza, i parrocchiani delle Budrie si stringes­sero intorno a Madre Clelia, ravvisando in lei un segno di luce e di conforto in una situazione pesante ed oscura. Infatti, la serva di Dio, la quale negli avve­nimenti del 1866 era rimasta turbata fino all'angoscia, manifesta ora uno stile nuovo e - confermata dal consenso comune nella sua vocazione di sorella dei poveri - irradia intorno a sé un senso di serenità di fortezza evangelica.

La regola del silenzio

Come i poveri del Vangelo Clelia e le sorelle hanno il dono della sapienza, ma non sanno di averlo; non sanno di sapere. Ciò le mette al riparo dalla ten­tazione presente anche nelle persone buone, che è quella di citare se stessi, di autoreclamizzarsi. Vige la regola del silenzio: ci si fa santi di «nascosto», d'ar­piat, dice Orsola.

Proprio in questa condizione silenziosa il gruppo iniziale, presto accresciuto da altri arrivi, sperimenta in modo inconsueto la provvidenza del Padre che nutre gli uccelli dell'aria e veste i gigli del campo. Dalle mani che non possiedono nulla scaturiscono doni, e dal cuore semplice zampilla la sapienza. Dio fa lievitare questo nucleo come una grande benedizione che si estende a cerchi concentrici dal villaggio ai suoi dintorni vicini e lontani.

A poco a poco, di qua e di là dal Samoggia, la gente riconosce a Clelia un ruolo di guida, consola­trice, maestra nella fede. Da cortile a cortile, da borgata a borgata, da campanile a campanile, la ven­tenne delle Budrie fu vista come il segno che il Signore non lascia mai mancare al suo popolo: la san­tità. La santità giovane, la santità paesana, la santità ardente.

Interesse, curiosità, emozione le crearono un'at­tenzione affettuosa e per certi aspetti preoccupata, che costringeva i giovani e gli anziani a una revisione di coscienza e di vita. Nelle case, nelle botteghe, nelle stalle, che d'inverno erano il salotto dei poveri, cominciarono a chiamarla «Madre Clelia». Fu il modo con cui la tradizione popolare, prima ancora dei sommi pontefici, canonizzò la ragazza delle Budrie. Così, in epoca recente, il termine «Madre» ha consa­crato Teresa di Calcutta.