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Martedi, 16 aprile 2024 - Misteri dolorosi - Santa Bernadette Soubirous ( Letture di oggi )

Santa Faustina Kowalska:Era passato qualche tempo. Gesù mi disse: «Lo sguardo che vi rivolgo dall'immagine è quello stesso con cui io vi guardavo dalla croce. Con quest'immagine, offro all'umanità il recipiente mediante il quale possa attingere grazie alla sorgente della mia misericordia. Il recipiente è esattamente questo quadro con la sua scritta: Gesù, confido in te!».
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Catechesi sulla confessione per il Tempo di Quaresima



Quaresima

L'arte di confessarsi: Parte seconda.



Siamo giunti al confessionale, per iniziare l'esame di coscienza.

Quali peccati si dovranno accusare?

E' normale porsi questa domanda, visto che non si può pretendere di accusare tutte le proprie colpe. "Il giusto pecca sette volte al giorno", dice la Scrittura. A me, che non sono giusto, quanti peccati sfuggono ogni giorno? Essere completi, fare un totale il più esatto possibile è un sogno irrealizzabile - e peraltro inutile.

Bisogna scegliere. Ma che cosa scegliere?

Evidentemente, innanzitutto tutti i peccati mortali. Rifiutare volontariamente di accusare un peccato mortale, pur accusandone altri di pari gravità, rendererebbe nulla e sacrilega la confessione. Come potremmo rientrare in grazia di Dio senza rinnegare, e quindi confessare, un atto con il quale ci siamo distolti da Dio, nostro fine ultimo, dicendoGli consapevolmente che per noi era indifferente il disubbidirGli in una materia grave, pur di poter soddisfare una delle nostre tendenze disordinate? Non è possibile essere contemporaneamente in amicizia ed in ostilità con Lui.

La difficoltà, per alcuni, è il sapere quando si commette peccato mortale. Teoricamente, tutti lo sanno: materia grave, piena avvertenza, deliberato consenso.

Nella pratica, ci si domanda spesso: "la materia era grave?" e ancor più comunemente: "ho proprio acconsentito?"

Sulla prima domanda è facile informarsi presso il proprio confessore. Quanto alla seconda, la soluzione sta nel fatto di porsela "in coscienza", lealmente: proprio la mancanza di una sicurezza assoluta dimostra che non c'era un pieno consenso. Questo significa che non bisogna accusare questo peccato "dubbio" o, piuttosto, "dubbiosamente commesso"? Certo che no! Si può legittimamente addurre a pretesto il dubbio per avvicinarsi al sacramento dell'Eucaristia; a rigore, non c'è nemmeno l'obbligo di accusarsi di questo peccato; ma, volendo progredire nella vita spirituale, si avrebbe torto a rifugiarsi dietro questo non-obbligo e conservare una coscienza incerta.

In pratica la regola è molto semplice. Non ci vien chiesto di dire: "mi accuso di aver commesso un peccato mortale", ma: "mi accuso di aver commesso il tale peccato, d'aver compiuto il tale atto" aggiungendo, se è il caso: "non so se ho pienamente consentito", e tutto sarà a posto. Saremo poi sempre in tempo a rispondere secondo la nostra coscienza, se il confessore dovesse chiederci: "credi di aver peccato mortalmente, agendo in quel modo?"

Che pensare della formula, così cara ad alcuni che la impiegano costantemente e quasi automaticamente: "me ne accuso come Dio me ne riconosce colpevole."? Utilizzabile a buon diritto quando si esita sul carattere della propria colpevolezza, essa mi pare troppo facile ed un po' ipocrita quando si sa molto bene come regolarsi.

Diciamo invece, a certe anime, che non bisogna vedere peccati mortali dappertutto... Non si commette un peccato che merita, di per sè, la separazione da Dio per l'eternità e le pene dell'inferno senza averne una chiara coscienza! Se è necessario formare una tale coscienza, si chiedano lumi al proprio confessore attenendosi strettamente alle sue indicazioni. Questa formazione della coscienza dovrebbe essere fatta in giovane età. E' stupefacente sentire, nelle loro confessioni, la tendenza di molti bambini a considerare mortali colpe che in realtà sono dei peccatucci... In questo caso (sia detto en passant) c'è una responsabilità diretta degli educatori, che non sanno proporzionare i loro rimproveri al valore reale (morale) delle colpe infantili. In ogni caso, il problema della formazione della coscienza nel bambino dovrebbe essere oggetto di un esame attento ed individuale da parte dei genitori e dei confessori abituali, poichè è altrettanto pericoloso lasciare che i bambini credano alla gravità dei peccati leggeri quanto il lasciar loro commettere con indifferenza degli atti gravemente reprensibili. Una coscienza scrupolosa ed angosciata nella tenera età prepara un adulto debole, ripiegato su sè stesso, senza virilità o, per contraccolpo, un adolescente che si "libererà" brutalmente di una costrizione insopportabile.

Mortali o no, sarà bene abituarsi ad accusare innanzitutto, in primissimo luogo, i peccati che pesano di più sulla coscienza, invece di inserirli come per caso nel mezzo di una lunga lista di peccati senza importanza... In tal modo ci si libererà, a colpo sicuro, di peccati che altrimenti si rischierebbe, cedendo ad una sciocca paura, alla fine di non dire.

Ma è soprattutto sull'esame e l'accusa dei peccati veniali che vorrei insistere. E' infatti su questo punto che la maggior parte degli "habituès" della confessione sono più deficienti.

Qual'è la lamentela che si sente più spesso sulla bocca di chi si confessa frequentemente? - "La confessione mi annoia, perchè ho sempre la stessa cosa da dire..." O quest'altra, rivolta al confessore: "Non mi dice niente..." intendendo: niente che esca dall'ordinario, che mi obblighi a scuotermi.

Ora, la causa di queste due carenze che rendono la confessione psicologicamente fastidiosa, è la stessa: non ci si sa accusare. Come si accusa infatti la maggior parte dei penitenti?

Alcuni (anche se si tratta di una minoranza) dimenticano che il peccato non è uno stato ma un atto, e presentano (o credono di presentare) il colore della loro anima dicendo: "Sono bugiardo, sono collerico, sono impaziente, ecc..." Questo modo di dire non è conveniente, perchè indica una tendenza della nostra anima, mentre la confessione non è un`esposizione" delle nostre tendenze ma una dichiarazione di atti precisi, senza dubbio risultanti dalle nostre tendenze, ma da esse differernti come il frutto rispetto all'albero. Si può benissimo avere una tendenza alla menzogna (essere bugiardi) e non aver detto, di fatto, alcuna menzogna nei quindici giorni trascorsi dall'ultima confessione. Qualora se ne siano dette, bisognerà dire "ho mentito" e non "sono bugiardo".

Del resto la maggior parte dice: "Ho mentito, ho mancato alla carità, sono stato pigro, sono stato vanitoso,ecc.": Si tratta di una forma più corretta, ma l'accusa non è migliore per il profitto dell'anima e rispetto all'opportunità di ricevere consigli utili da parte del proprio confessore. Perchè?

Perchè è incolore e non ha richiesto alcuna riflessione particolare nè alcuno sforzo di messa a punto. Essa non dà al confessore alcun "segnale particolare" che gli consenta di vedere in che cosa la nostra anima si differenzia da quella che ha giudicato e consigliato poco prima. Su dieci penitenti che si succedono, almeno nove potrebbero presentare lo stesso elenco di peccati - e in effetti, ahimè! lo presentano... Perchè (a meno che egli ci conosca altrimenti) pretendere che il nostro confessore ci dia esattamente i consigli di cui noi, e non un altro, abbiamo bisogno? Il nostro caso particolare non gli è stato rivelato attraverso l'accusa, che non gli offre alcun appiglio. Dovrebbe essere meravigliosamente psicologo ed intuitivo per indovinare, tramite una rapida carrellata di colpe "standards" ed attraverso una grata da cui non vede nemmeno il nostro viso, le parole da dire per raggiungerci ed incitarci allo sforzo che noi, personalmente, dovremmo intraprendere!

Non si può chiedere ad ogni confessore di essere un Curato d'Ars. Normalmente, egli ci restituirà quel che gli avremo dato.

Se poi il penitente si lancia, così come capita, in una enumerazione che pretende di essere la più esauriente possibile, citando pressapoco tutti i peccati veniali che si possono commettere (e che avrà, difatti, senza dubbio commesso), di modo che tale enumerazione, fatta a ritmo accelerato, dura talvolta parecchi minuti, ecco che il confessore è completamente sommerso: "Che cosa c'è di caratteristico in una cosa dél genere?" si chiede invano? E, non trovando niente, si accontenta di un'esortazione generale che serve a poco.

Ma di chi è la colpa? Come accusarsi, allora? Rileviamo innanzitutto che il peccato veniale è materia libera di confessione e non si è tenuti ad accusarlo. Un atto di contrizione ben fatto, un autentico atto di amor di Dio, il ricorso con fede ed umiltà ad un sacramentale sono mezzi sufficienti ad ottenerne il perdono. Una confessione che comporti solo dei peccati veniali non è quindi un passo necessario alla salvezza, ma un mezzo di santificazione. Si tratta un ricorso al sacramento, vale a dire al sangue purificatore di Gesù, per il quale noi siamo risanati e fortificati; è pure, secondariamente, un esercizio di umiltà fondata sulla conoscenza di sè e la confessione di ciò che ostacola il progresso spirituale. Fra i peccati veniali commessi, saremo dunque liberi di scegliere quelli che vorremo accusare. Ciò significa che dovremo scegliere i più anonimi, relegando nell'oblìo quelli imbarazzanti?

No! Sarà esattamente il contrario.

Un esame di coscienza ben fatto tenderà a far emergere dalla massa delle colpe quotidiane quelle che, per la loro frequenza o la loro malizia, sono le più pericolose per la vitalità dell'anima. La fisionomia propria della mia anima peccatrice differisce da quella delle altre anime così come il mio viso non è simile ad un altro viso; in estrema sintesi, noi commettiamo pressapoco le stesse colpe, così come abbiamo tutti un naso, una bocca, delle orecchie...; ma il mio viso di peccatore è composto dall'importanza che ha, per me, la tale colpa, dal posto che essa occupa nella mia vita spirituale, dalla sua prossimità con altre colpe della stessa famiglia.

Ecco dunque che cosa evidenzierà un intelligente esame di coscienza. E' inutile accumulare una moltitudine di peccati: cinque o sei, ben scelti, saranno sufficienti a vedersi e mostrarsi tali quali si è sotto lo sguardo di Dio.Ma questi peccati (e questa osservazione è senza dubbio la più pratica di tutte), bisognerà farli emergere con il colore proprio che noi abbiamo dato loro. - "Ho mentito..." non significa niente... Omnis homo mendax, dice il Salmo; ogni uomo è bugiardo. In che modo ho mentito? A chi? In quali circostanze? Perchè? "Ho mentito ad un'amica malata che contava sulla mia visita, perchè mi seccava andarla a trovare": chi non nota che si tratta di una menzogna di qualità speciale? "Ho mentito dal barbiere, attribuendomi delle relazioni che non avevo; ho mentito al mio superiore per ottenere una vacanza alla quale non avevo diritto; ho ingannato un cliente sulla qualità del mio lavoro per farglielo pagare più caro...": tanti tipi di menzogna di cui l'accusa "ho mentito" non avrebbe dato alcuna idea.

"Mancare alla carità" è il peccato più frequente. Perché impiegare questa espressione incolore? Diciamo piuttosto: "Ho detto una parola offensiva a qualcuno che non amo, con l'intenzione di dargli un dispiacere" oppure "ho manifestato disprezzo ad un amico poco intelligente"; oppure "ho rifiutato un aiuto che avrei potuto dare ad un amico nel bisogno"; o "mi sono burlato di un infermo... ".

Ci sono cento modi di essere vanitosi. Qual'è il nostro? Dedicare un tempo esagerato alla nostra toilette? Guardarci continuamente allo specchio? Pavoneggiarci in pubblico, tentando di attirare ogni attenzione con la nostra brillante conversazione?...

E come si manifesta la nostra pigrizia? Ostinandoci a restare a letto quando è ora di alzarsi? Con la negligenza sul lavoro, fatto in modo raffazzonato o lasciato a metà? Con un atteggiamento svogliato od un amore esagerato per le poltrone?

Questi pochi esempi (che sarebbe facile moltiplicare) ci aiutano a comprendere il significato dell'esortazione ad accusarci di atti precisi, specificando le circostanze in cui li abbiamo commessi, cercando le parole più adatte per esprimere la nostra colpa, tale e quale si è verificata nella realtà, in quanto è una colpa nostra propria e non quella di chissà chi. Tutto ciò sarà a nostro profitto. Innanzitutto perchè ci obbligherà a vederci per quello che siamo; poi perchè sarà l'occasione per una salutare umiliazione (è più umiliante dire: "Ho passato ogni giorno mezzora a truccarmi" rispetto al dire: "Sono stata vanitosa" ... ); infine perchè, in base a questi dati precisi, il nostro confessore potrà vedere lo stato della nostra anima e trarne dei consigli adeguati.

Questo non significa un invito alle chiacchiere. Accusarsi con precisione non è "raccontare delle storie". La confessione non deve essere immersa in un flusso di racconti, di spiegazioni, di digressioni, in cui il penitente perde di vista che si sta accusando ed il confessore non capisce più ciò che viene accusato come peccato. Talvolta questa pretesa confessione si trasforma in apologia o in un'arringa, talvolta in apprezzamenti sul conto altrui, talvolta in lamentele sulla crisi dei valori...

E' comprensibile aver bisogno di scaricare un cuore troppo pesante e ricevere qualche consolazione, o desiderare dei chiarimenti sulla condotta da tenersi: niente di più legittimo. Ma bisogna tenere nettamente separati i due tipi di discorso: facciamo la nostra confessione propriamente detta, attenendoci strettamente alle colpe; nessuno ci impedirà poi di informare il confessore che abbiamo qualcos'altro da dirgli.